IL SILENZIO DEI POETI

 

Quante morti sono state annunciate, della letteratura, della pittura, dell’architettura, fino ad arrivare ad affermare: Dio è morto! Ma della parola si è affermata la morte?

Forse, infatti fin dagli ultimi anni ’70, la problematica poetica,  e non solo, si sposta sul silenzio, sulla non-partecipazione, sull’astensione.

“Voler scrivere è volersi distruggere”, questo tema viene ulteriormente integrato ed abbiamo anche “affidarsi al silenzio in quanto rifiuto di parlare”, e cioè ad un silenzio parlante, a un volersi distruggere, e non solo in senso metaforico.

Dei personaggi di Samuel Beckett, esempi vivi di questo parlante rifiuto di parlare e di questo atteggiamento che sembrerebbe ormai l’unico possibile, è stato detto che gli esseri umani sono la fase costante di flusso interiore, ma le strutture del flusso variano poco da persona a persona.

Tutte le strutture ripetono gli stessi impulsi umani: l’impulso a spiegare l’inesplicabile, ad imparare a trovare un senso a ciò che ne è privo, l’impulso ad essere costantemente attivi nella mente, ma anche nel corpo, meglio se in entrambi ed un impulso a tentare inutilmente la fuga nella stasi, nel silenzio mortale , nel non essere.

In “Assumption” del ’29, il primo racconto pubblicato di Beckett, l’Autore non definisce con molti particolari il problema dell’esistenza umana, bensì descrive il desiderio di sfuggire a questi problemi.

L’anonimo protagonista disgustato dalla forza vitale che fa pensare parlare e vivere, lui e gli altri, tenta di soffocare ogni suono, ogni processo mentale e quindi rinchiudersi in un silenzio avvolto dalla carne, in una riserva d’energia vitale che, com’egli sente, minaccia di ribellarsi, di esplodere, di distruggere lui stesso.

Tutto il problema dei personaggi beckettiani da Molloy a Murphy a Pim, consiste nel sapere che è possibile raggiungere il mondo oggettivo, ma che nell’atto stesso in cui lo si raggiunge, lo si perde attraverso l’incertezza trascendente dei concetti che immediatamente si stabiliscono su di esso.

Bisognerebbe continuare ad accettare la certezza prestabilita o trascendente ed i suoi strumenti, o tacere.

Altrimenti le parole divengono lo stesso strumento visibile di frattura della coscienza soggettiva ed oggettiva e quindi strumenti dell’incertezza e dell’intollerabilità del vivere.

Tacere come atto di semplice omissione della parola può anche essere strumento visibile ed udibile dell’incertezza e dell’intollerabilità del vivere.

Parlare dell’insufficienza delle parole con le parole è un procedimento unilaterale, una frattura, un requiem, impotente di fronte all’edificio logico-simbolico che l’essere umano ha costruito.

E’ il silenzio reale ricercato da Pasolini o da Mishima, ma è anche il silenzio vuoto di tutti a comunicare che stanno comunicando. D’altro canto è il trionfo del pensiero zen e la mente costruisce lentamente e soggettivamente il proprio silenzio.

Davanti all’impotenza della parola Ion Barbu scrive il suo capolavoro:

 

Giammai un albero

ha ucciso un albero.

Mai una pietra

ha testimoniato

contro una pietra.

 

Solo il nome albero

uccide il nome albero;

solo il nome pietra

uccide, testimoniando

sul nome pietra.

Mentre si moltiplicano gli informali alla Pollok, il silenzio di Cage viene rappresentato nelle sale d’orchestra ed i tagli di Fontana sono esposti nei principali musei, c’è da registrare anche il silenzio che contiene la coscienza soddisfatta del mondo e dell’io, il silenzio che non è più rifiuto di parlare, ma è lo stato in cui il parlare diviene superfluo, nella terminologia beckettiana è il silenzio che dura, o il vero silenzio.

Ma la phoné di Carmelo Bene coesiste con i muti giardini zen, mentre la ricerca anche letteraria continua.

 

 

Vittorio Baccelli