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CAMINANTE

 

Lungo la spiaggia il caminante lentamente avanza, ha dei sandali con le suole ricavate da vecchi copertoni d’auto, un paio di pantaloni corti privi di colore ed uno zaino militare sulle spalle. La barba è lunga e il colore è quello della sabbia, così quello dei capelli appiccicati dal salmastro. Lui non sa su quale spiaggia stia ora avanzando, ormai tutte le spiagge sembrano uguali ed anche quando attraversa tratti di scogliera, i sentieri che imbocca sembrano a lui tutti simili. Avanza, sa che deve camminare, lentamente ma senza fermarsi se non per dormire, per cibarsi, per fare i propri bisogni corporali. Conosce ove prendere il cibo e dove riempire le sue borracce d’acqua. Sa anche che tutti i mari che lui costeggia appartengono ad ogni continente, a moltissime isole, ma anche ad altri luoghi. Come mai sta compiendo quest’infinito viaggio? Se lo è chiesto infinite volte senza mai trovare le risposte. Mentre avanza talvolta ricorda anche se in modo frammentario e confuso, ora ad esempio sta pensando ad una villetta di periferia e lui che trascina i corpi dei genitori: i suoi? Non lo sa, ma un fratello lo sta aiutando e c’è un’altra bambina. Trascinano il padre (il loro?) lungo la stanza, con difficoltà, a causa del rigor mortis, lo piegano e poi lo fanno scivolare lungo una rampa di scale. Fanno altrettanto con la donna (la loro madre?) anch’essa rigida nella morte. Dopo aver portato i cadaveri in giardino danno loro fuoco. Questo ricorda, o sogna, mentre cammina ed il mare rumoreggia spingendosi fino a bagnare i suoi piedi. Ha di recente incontrato un altro caminante nel suo incedere e tutti loro fanno parte ormai del mito e delle leggende. Possono anche sembrare la stessa persona, uomo o donna che sia, e coloro che li incrociano si dileguano in fretta o volutamente li ignorano, fanno poi i debiti scongiuri o il segno della croce. Lui ricorda spiagge assolate gremite di bagnanti, scogliere a picco sul mare, piccole spiaggette composte di minuti sassolini attraversate da rapidi crostacei che fanno scattare le tenaglie delle loro chele con secchi schiocchi, ricorda altre coste coperte di neve ove lastre di ghiaccio galleggiano a pochi metri dalla riva urtandosi nella furia dei marosi con sinistri scricchiolii. Ha in mente le tempeste ed i paurosi esseri che durante lo scatenarsi degli elementi strisciano dal mare fino a lui emettendo un rumore che è un canto, e lui sa essere ipnotico: prende allora una pallina di cera dallo zaino, la lavora in fretta con le dita, poi se l’applica negli orecchi. Mercanti impossibili talvolta gli vengono incontro e gli offrono ori e gemme, e tutte le volte deve faticare a rifiutare, sa che se trattenesse qualcosa sarebbe perduto per sempre; ma poi si ferma a riflettere se non sia già perduto per sempre o se i mercanti siano solo allucinazioni. Non ha risposte. Più volte nel sonno gli si accostano demoni, sotto le forme d’avvenenti fanciulle, ma sempre ha saputo riconoscerli. Oggi avanza faticosamente su una bianca spiaggia senza fine, assolata, deserta. Il mare ha portato ben poco su questo arenile, solo dei piccoli pezzi di legno, qualche osso di seppia, rare valve di mollusco: ha incrociato solo due piccoli rametti di corallo strappati forse dalla furia dei marosi. Prosegue lentamente ignaro del trascorrere del tempo, oltre la striscia di sabbia scorge una foresta impenetrabile, nessun animale sembra incuriosito dalla sua presenza, né uccelli, né rettili. Beve un sorso dalla  borraccia e ricorda una spiaggia in un mondo che aveva il mare come cielo, ove si vedevano di giorno galleggiare enormi luminescenti pesci e se qualcuno dallo spazio avesse voluto raggiungerlo, avrebbe dovuto attraversare quel mare per poi scendere nell’atmosfera e solo allora avrebbe potuto ammirare il pianeta coi suoi mari interni e le terre emerse. Sorride ricordando un posto tanto bello, sempre continuando a camminare ripone la boraccia al fresco nello zaino, ed ancora rammenta. Una spiaggia dalla sabbia vetrificata, con un mare dall’aspetto inquietante e sopra tutto questo un’enorme sfera metallica sospesa nel cielo. Una sfera che comunica telepaticamente coi senzienti che l’incrociano, una sfera che sostiene d’esser sincrona al tempo, scorrendo contrariamente ad esso, precipitando pur stando ferma, come un satellite geostazionario che appare immobile. Il caminante rabbrividisce a quel ricordo inquietante e forse al di sopra della sua comprensione, lo scaccia dalla mente e continua, un passo dopo l’altro, su quella spiaggia che sembra non avere fine. Il panorama muta all’improvviso, così di colpo e il caminante strizza gli occhi e si guarda attorno, anche se ormai privo d’ogni curiosità, solo il passo è rimasto uguale, lento senza mutazioni nel ritmo. La sabbia fine è scomparsa, i suoi piedi stanno affondando in una terra grumosa zeppa di rifiuti metallici. Il terreno invia rugginosi bagliori rossastri, il mare s’è fatto nero e maleodorante, chiazze oleose creano miliardi d’arcobaleni, complici i raggi del sole ora quantomai obliqui. Si guarda attorno e scorge una pianura ricoperta di detriti, di radi cespugli, ciminiere di un antico e dimenticato opificio pendono sbilenche e cataste d’oggetti corrosi si alternano a macchinari coperti dalla vegetazione e dalla ruggine. Conosce già quel posto, c’è  passato forse più volte ed i suoi sensi si fanno attenti, si tiene a distanza di sicurezza da bagnasciuga, sa che esseri immondi, gelatinosi, sono pronti a ghermirlo coi loro tentacoli. Tiene gli occhi fissi sull’immensa discarica mentre si sta avviando su un sentiero formato di rifiuti informatici, schede plastiche e di mica con saldati infiniti componenti miniaturizzati, quasi mappe di città microscopiche su quei fogli, avanzi di una nanotecnologia informatica abbandonata. Si toglie lo zaino dalle spalle, si ferma e con estrema cautela estrae un giallo piccolo bastone di cristallo: ha la forma e la consistenza di una penna da scrivere, ma è un’arma a raggi potente. Si rimette lo zaino in spalla e prosegue avanzando cautamente sui rifiuti informatici con l’arma ben stretta in mano. I suoi passi creano una scricchiolio che pian piano muta di rumore, adesso sembra stia pestando dei biscotti secchi. Ma biscotti non sono, sono piccole ossa calcinate dal sole che si polverizzano al suo passaggio, si direbbero umane se non fossero così minuscole. Il caminante prosegue fino al tramonto, una giornata molto lunga questa, ma il tempo attorno ai caminanti s’è incasinato, e questo tutti lo sanno. Solo allora s’arresta, orina, si siede, ha le spalle appoggiate ad un muro rimasto in piedi come unico ricordo d’una vecchia costruzione. Il vento soffia più forte al tramonto sibilando tra le ciminiere sghembe ed i tralicci abbattuti. Si è messo al riparo dal vento, sta mangiando razioni energetiche che assomigliano a tavolette di cioccolata, beve alcuni piccoli sorsi dalla boraccia. Distende il serape, si copre preparandosi alla notte. Mentre gli occhi se ne stanno socchiusi, una parte della sua mente è all’erta, la rimanente elabora dati, o forse ricorda, o forse sogna a schema libero, comunque sia un dialogo interno è in atto:

“…è un bel volume, il film invece non l’ho molto apprezzato, era ovvio. Però è innegabile che trucchi ed ambiente fossero stupefacenti. È un vero artista quello che ha creato gli ambienti alieni del film, oltre agli alieni stessi, naturalmente, un po’ come i grandi pittori usati da Diaghilev per i balletti russi crearono le scenografie teatrali. Si tratta di arte e di un brillante tentativo di dare un tocco veramente inumano ad ambienti e creature, con solo qualche piccolo difetto qua e là, consistente in particolari troppo umani. Sì questo libro è un eccellente documento di quegli straordinari risultati. L’idea è che in un futuro non troppo lontano, l’umanità viva parassitamente nelle abitazioni di alieni giganteschi che più che conquistare la Terra, se ne sono semplicemente appropriati, ignorando gli uomini se non quando essi interferiscono fin troppo vistosamente e fastidiosamente nelle loro esistenze: in questo caso eliminano il problema uccidendo il soggetto. Il romanzo parte dal presupposto che semplicemente non esista la possibilità di una comunicazione intelligente e che quindi gli alieni non possono capire che quelle creature minuscole, e per loro ripugnanti, sono senzienti. Vengono quindi descritte meravigliosamente tribù di esseri umani che vagano tra le cose che nelle abitazioni degli alieni sono cibi, scatole, contenitori, macchine, imbattendosi in oggetti sempre più incomprensibili. Ci voleva uno scrittore molto audace per portare a termine…”

Un rumore improvviso, il caminante interrompe il flusso dei pensieri ed è subito in piedi con l’arma in mano, scruta il territorio ove ha avvertito il rumore, come se qualcosa stesse scivolando verso di lui. Ora tutto è silenzio, il caminante s’avvolge nuovamente nel serape e vigilante s’appresta a terminare la notte. Chiude gli occhi ma l’attenzione resta desta, in questo punto proprio in questo punto, ora ricorda, in un altro suo passaggio incrociò un caminante, era una donna, l’unico caminante donna da lui incontrato. Con lei passò la notte, protetti dal solito muro, al mattino i loro sentieri si divisero. Il mare è la loro dispensa, sulle rive trovano ciò che occorre. I materiali organici chiusi nelle loro scatole si trasformano in cibo, in quelle tavolette simili alla cioccolata, ma insapori che il nostro ogni tanto sgranocchia, l’acqua, anche quella salata, messa nella boraccia diviene potabile. Gli altri umani li ignorano o li evitano, raramente qualcuno si ferma con loro, solo quegli strani mercanti, ma saranno uomini? Il nostro caminante non crede. C’è una leggenda che narra che se si accetta un dono da un caminante, in breve si diverrà uno di loro. Gli animali invece sembrano convivere in pace coi caminanti, i serpenti talvolta li accompagnano per lunghi tratti, gli uccelli volano rasente le loro teste e spesso planano sulle loro spalle, i lupi e le tigri si accostano per farsi accarezzare. Ma vi sono eccezioni: alcune mostruosità marine tentano di ghermirli e continuamente li insidiano, le sfingi sono sempre pronte all’aggressione, ma le più pericolose sono le scille che tentano d’attirarli verso la loro tagliente corolla emettendo un canto ipnotico. Ma quella dei caminanti è una razza dura; ecco il sole appare all’orizzonte ed il nostro fa toilette davanti al mare, si ciba, beve, raccoglie alcuni pesci gettati a riva dalle onde, riempie la boraccia e colla sua solida andatura riparte. Un paio d’occhiali scuri con le lenti di carbonato sono semiaffondati nella sporca sabbia. Li raccogli, li ripulisce per bene, se li mette e riparte sotto il sole. Il paesaggio è nuovamente mutato, l’opificio è sparito così come le sue strutture fatiscenti, adesso c’è un sottile passaggio formato da piccoli sassi taglienti tra il mare ed una parete rocciosa che si eleva a picco per un centinaio di metri. Il caminante s’arresta, guarda verso l’alto, s’intravede un’antica torre di pietra nera. Più avanti c’è un sentiero che sale, il caminante per una volta abbandona il litorale, è incuriosito dalla torre, oppure sa già di cosa si tratta, forse è già stato in questo posto, ma le sue memorie sembrano ora cancellate. Col suo istinto segue le radianti che hanno la torre come fulcro, avverte che un tempo queste cose erano a lui note, ma ora brancola nel buio e sale, il sentiero è ripido ma facilmente scalabile, nei punti peggiori vi sono degli scalini scolpiti, ciò che dal basso sembra impraticabile, nella realtà è una cosa semplice. Giunge in cima, c’è un verde pianoro, più lontano una foresta. La nera torre in pietra s’innalza a picco sul mare. C’è un’apertura che lui conosce, entra: scale, saloni ed ancora scale, in un’aula un magico tappeto sembra invitare al ristoro, i suoi sensi l’avvertono del pericolo mortale e solo allora scorge una montagnola d’ossa umane d’un bianco candido in un angolo della sala, prosegue raggiungendo la camera da letto della lamia, qui voleva giungere e lei lo attendeva con ansia, sapeva della sua venuta. Lui è l’unico umano che sia venuto e giaciuto con lei più volte. Forse il caminante è umano fino ad un certo punto, ma questo a loro due non interessa: la lamia dona amore, un amore infinito che prosciuga il corpo e le menti di chi con lei giace. Gli amanti più non ricordano o impazziscono, ma lui è un caminante e la quasi totale assenza di memoria fa parte della sua natura. È già giaciuto con lei, ed è  tornato altre volte, anche lei lo sa e l’accoglie con amore. Dopo lungo tempo il caminante esausto si alza dal letto abbandonandolo con la sua bellissima ed insaziabile occupante. Si riveste e si gira per tornare sulla riva del mare, un lungo cammino l’attende. Prima d’uscire dalla camera della lamia prende gli occhiali da sole e li mette a lei. La lamia accetta il regalo e gli concede un ultimo bacio, lui esce dalla torre, scende lungo il sentiero, prosegue costeggiando il mare.

La lamia non s’è tolta gli occhiali ed avverte la sensazione indefinita di muoversi lungo il mare, è perplessa per questo desiderio per lei inusuale. Ci penserà in seguito. Si alza e si mette davanti allo specchio: ammirata si osserva. La sua bocca è vogliosa, i suoi seni sono perfetti, i capezzoli fantastici, le gambe un’autentica meraviglia, il ventre è piatto, il suo sesso ipnotico: si guarda, si ammira, si desidera, si ama. Poi sorride ed osserva il volto che con gli occhiali scuri ancor più risplende. Un dono, per la prima volta lei ha avuto un dono.