-         vittorio baccelli – i racconti – eclisse

 

GIORNI FELICI

 

                                                                               stanno stretti

                                                                               sette spettri

                                                                               sotto i letti

                                                                               a denti stretti

                                                                                   (S.King)

 

Questi due insegnanti, proprio con me dovevano fare esperienza, sì l’esperienza di genitori, cazzo, proprio con me..

Un’esperienza poi che anche a loro non è servita a nulla, poiché sono rimasto figlio unico. Ma per me è stata una rottura indescrivibile, sprangato in casa, vestito da capo a piedi solo da loro ed a loro immagine e somiglianza…e si vedeva da lontano un chilometro che gli abiti non li avevo scelti io….roba da vergognarsi, all’inglese come quelli di mio padre, sembravo un alieno se mi guardavo allo specchio, e gli altri ragazzi mi guardavano proprio di traverso.

Poi un bel giorno ruppi, non ne potevo più di fare il cagnolino obbediente, tutto casa, scuola, chiesa. E poi chissà perché i miei andavano e mi portavano continuamente in chiesa, che di religione fra tutti e due non ci capivano un cazzo.  Erano insegnanti, cioè due persone che non sono volute crescere e sono rimaste rinchiuse nella scuola per tutta la vita.

Ma vi dicevo che ruppi, e come? Semplicissimo, la notte me ne uscivo in silenzio da casa per la porta di servizio. Nessuno se n’è mai accorto, i miei andavano a letto quasi subito dopo cena, la TV non era ancora entrata invadente nelle case, e subito dopo ronfavano il sonno dei giusti fino al mattino, ora di recarsi al lavoro (tutti e tre a scuola).

Ma la notte, io piccoletto stazionavo nei peggiori baracci della città, ognuno dei quali aveva la sua brava puttana.

Il primo paio di pantaloni lunghi me lo comprai solo dopo aver sgraffignato i soldi dal portafoglio di mio padre. Me lo mettevo la notte, non ci crederete, ma il giorno portavo o i pantaloni corti o quelli alla zuava: roba da far inorridire la gente.

Il mio primo giradischi? Fui costretto a rubarlo in un negozio del centro, era a valigetta, esposto in vetrina. Non ebbi da far altro che entrare, chiudere la valigetta ed uscire, incredibilmente nessuno mi notò. Per queste cose avevo come il dono dell’invisibilità, cercavo d’estraniarmi dalla realtà ed in quei magici momenti nessuno faceva caso al sottoscritto, come se fossi divenuto invisibile.

E tutti gli altri compagni di scuola avevano una ragazza, a me non interessavano più di tanto, e poi coi pantaloni alla zuava non ero certamente credibile – tanto poi la notte avevo le puttane nei baracci che qualcosa mi regalavano, ogni tanto.

Tra le amiche ne trovai una che mi ci stava, le palpavo il culo la domenica al cinema parrocchiale e lei lasciava fare. Ma non andai mai più in la, capitò anche da me per una festa di compleanno (la mia?), con sua madre in salotto a chiacchierare con i miei ed io e qualche altro amico in cantina con lei a sentire musica.

C’era poi Marina, lei mi piaceva, anch’essa figlia d’una amica di mia madre. La baciai sulla bocca e la strinsi forte forte ad una festa a luci spente, a casa sua, mentre ballavamo.

Tutte le cose che avevo erano scelte dai miei genitori, come i vestiti. C’ero anch’io al momento dell’acquisto ma loro sceglievano per me. Guai a contraddirli. Anche le ragazze che frequentavo erano figlie d’amici di famiglia. Forse è per questo che non ce n’era una che mi andasse a genio. Ripensandoci attentamente anche i miei compagni di quel tempo erano tutti figli d’amici di famiglia oppure ragazzi che erano vicini di casa. E se per sbaglio mi fermavo con un marmocchio nuovo, in casa mi facevano il terzo grado, volevano sapere chi fosse, ed è successo anche che telefonassero a casa sua per rendersi conto di chi erano i genitori.

E mi rompevo, mi rompevo di brutto, volevo amicizie mie, scelte da me, abiti miei, di mio gusto, comprati da me, insomma cose mie da me scelte.

Mirta, sì Mirta, che buffo nome, fu lei a baciarmi e per un giorno o due anch’io ci presi gusto, ma poi cominciai ad ignorarla e gli amici mi dicevano:

-         Vieni oggi? C’è anche Mirta!

-         No, non ne ho voglia.

-         Ma c’è Mirta.

-         Appunto non mi va.

-         Ma non ne hai mica altre di ragazze.

-         E’ lo stesso.

E non capivano perché non sfruttassi l’occasione, ma io non ci andai più, non mi piaceva, preferivo il nulla ad una cosa che non mi andava.

Poi m’iscrissi ad una scuola in un’altra città, anche se vicina alla mia. Tutte le mattine salivo in treno e finalmente ebbi veri amici, solo miei, scelti da me, e conobbi anche nuove ragazze.

Mi comprai i miei primi jeans, le camice militari, l’abbigliamento casual, le giacche a vento americane, le scarpe da ginnastica, le cinture con le borchie…..

Ma poi a casa era sempre peggio, la fantascienza dicevano che era fantasia malata- trovarono un paio di jeans con qualche scritta e me li sequestrarono, mio padre li chiuse in cassaforte dicendo che me li avrebbe fatti rivedere solo quando fossi stato più grande e che mi sarei vergognato a scoprire come andavo in giro conciato – cazzo erano un bel paio di Levi’s! – mi sequestrarono anche “Il mondo nuovo” di Huxley, dicendo che era un libro pornografico….

A diciotto anni andai a stare per conto mio in un monolocale al piano terra: finalmente ero libero!

Fumavo Marlboro, leggevo fantascienza, ascoltavo musica rock (Elvis, Platters, Little Richard….) portavo jeans, camicie da lavoro, giacche a vento, scarpe da tennis….avevo la casa piena di long play, romanzi d’Urania, tappeti, poster, posacenere ovunque.

Che gioia non dover più portare le scarpe con la suola di cuoio….

Nel mio monolocale gli amici capitavano a tutte le ore, si giocava a carte, si faceva l’amore, si ascoltava musica, ogni tanto si beveva birra e qualche goccia di wisky.

Facevo dei lavoretti e mi mantenevo, continuavo a studiare perché sapevo che un giorno mi sarei prima diplomato e poi laureato: in quel periodo ero quasi riuscito a dimenticare completamente i miei.

Avevo un Garelli supersport e la sera con le moto partivamo in branco verso le destinazioni più impensate. Calavamo come sciame di calabroni sul paese prescelto e ci atteggiavamo a teddy boy, scimmiottavamo il gigante e gli altri film americani. Ma oltre l’atteggiamento, ovviamente non s’andava. Partivamo tutti in gruppo da un bar del centro che avevamo eletto a posto di ritrovo. Il bar era ampio, con flipper nel retrobottega e un juke box sempre in funzione all’ingresso con rock…Elvis…Bill Haley e i suoi Comet…Little Richard….

C’erano sempre un paio di puttane pronte nel bar e un tavolo di giocatori di carte professionisti sempre all’opera. Anche l’unico biliardo era sempre occupato. Il proprietario era un confidente della polizia e noi ci atteggiavamo ad affiliati alla mala. Le puttane, quelle vere, giocavano con noi fingendo d’essere le nostre pupe e noi, i bulli, stavamo al gioco. Birre e cocacole, marlboro e zippo e dupont.

Era un gioco, bello fin che durò.

Poi vennero i Rolling Stones, le auto, i primi incidenti, le ragazze incinta, gli aborti, nacquero i primi bambini, e poi gli spinelli mentre sparivano i juke box sostituiti dalle macchine mangiasoldi ….arrivò anche l’eroina e i primi arresti, i gay e lo spaccio, le perquisizioni…

Gli anni di piombo e l’aids erano ad un passo da noi, in agguato, dietro un sottile paravento, la grande consolatrice ci aspettava con ansia e molti di noi, ignari, la raggiunsero…