HAIKU

L’haiku (o haikai) è un componimento poetico originario del Giappone che è rigidamente costruito sullo schema sillabico 5-7-5 ed ha dei precisi riferimenti alle stagioni e alla natura (scuola Tenro), oppure adotta il verso libero, riferendosi più generalmente all’ambiente circostante, e generando comunque una poesia breve e compatta, scritta "nello spirito di Bashô" (scuola Soun).

L’origine dell’haiku va ricercato nel "renga" (verso "a catena"), che alla fine del Periodo Heian (XI-XII sec.) divenne popolare. Il renga era una specie di gara o gioco poetico nel quale i partecipanti, dato un primo verso come tema (detto hokku), aggiungevano versi da 14 o 21 sillabe; tali versi, composti in modo indipendente, erano poi associati "a catena", il primo verso con la composizione precedente e l’ultimo con quello successivo. Verso il XV sec. il renga si trasformò in "haikai renga", ossia delle composizioni a catena di poesie di 17 sillabe, i cui soggetti erano comico-satirici. Verso la fine del XV sec. il componimento a catena viene abbandonato e rimane semplicemente l’haikai (o haiku). Bashô è il poeta che nel XVII secolo impresse un’inversione di tendenza alle composizioni haiku, passando dal tono comico a quello lirico e l’haiku prese le caratteristiche che hanno reso celebre l’haiku anche in occidente.

Molti poeti di haiku furono anche degli ottimi pittori che, con l’acquerello riuscivano in poche pennellate a riprodurre la stessa magica atmosfera di una poesia haiku. E quasi tutti i più celebri erano cultori dello spirito Zen, sia che intraprendessero o meno la disciplina zen. Per alcuni, il comporre un haiku o dipingere un acquerello era un’esperienza non estetica, ma spirituale e i maestri Zen, spesso anche loro poeti e pittori, giudicavano il livello di conoscenza spirituale dei loro discepoli-artisti sulla base delle loro composizioni.

Ecco allora che possiamo affermare: non basta (e non serve) seguire lo schema sillabico 5-7-5 per comporre un haiku; non basta (e non serve) scimmiottare i temi della natura e/o delle stagioni per comporre un haiku. Bisogna entrare nella cultura del popolo che ha inventato l’haiku; bisogna penetrare lo spirito Zen, per cui l’uomo si realizza appieno solo integrandosi con l’ambiente in cui è inserito, per quanto ostile questo possa apparire, bisogna diventare un tutt’uno con l’universo e non vedere più separazione tra l’io e il non-io; non vedere differenza sostanziale tra bello e brutto, buono e cattivo, vita e morte; bisogna realizzare l’unione degli opposti in un processo, diremo noi occidentali, alchemico.

"Quando un sentimento raggiunge il suo apice", dice il professor Suzuki, storico della filosofia zen, "noi restiamo silenziosi, persino 17 sillabe possono essere troppe..." l’haiku dev’essere un mezzo di meditazione per arrivare alla verità essenziale. Chi compone un haiku non guarda ad un oggetto, ma come quell’oggetto. Il poeta deve conseguire uno stato di "identificazione" così stretta con l’oggetto da annullare il proprio pensiero logico; quanto più un haiku è profondo, tanto più esso rende l’idea di tale processo.

Il pensiero Zen arriva in Giappone poco prima dello svilupparsi dell’haiku: la scuola rinzai ha inizio nel 1215 ad opera del monaco Eisai, che importa il pensiero del buddismo cinese (scuola ch’an), mentre nel 1227 viene istituita la scuola di meditazione sotô. Entrambi le scuole sono d'ispirazione mahâyâna, ma senza sottolinearne l’aspetto metafisico. Ciò che interessa ai seguaci dello Zen è raggiungere l’illuminazione, ma ciò può avvenire non mediante l’isolamento o l’esasperata ricerca del proprio sé, bensì compenetrando la realtà in modo che nulla si opponga ad altro. Tale compenetrazione si ottiene creando il "vuoto" dentro di sé mediante la contemplazione "senza oggetto". La scuola sotô persegue questa meta con la pratica dello zazen (meditazione stando seduti), nella posizione del "loto", seguendo il ritmo del respiro, senza idee né pensieri. La scuola rinzai preferisce mettere in crisi la razionalità mediante i koan (lezioni sul vuoto, porta senza porta). Rifiutato dalla scuola sotô, il koan è un racconto, un enigma, un problema senza soluzione, un paradosso logico, che fa toccare con mano quanto sia vano ogni sforzo razionale a penetrare la realtà ultima.

È noto lo spirito non violento che anima tutta la filosofia buddhista (Zen compreso), eppure lo Zen venne sin dall’inizio adottato come guida per lo spirito dai Samurai. Non è un paradosso: è l’unione e la compenetrazione degli opposti in un’unica realtà. Per chi crede nella compenetrazione di tutte le cose viventi, il mondo è come un corpo.

In conclusione: l’essenza dell’haiku è la visione trascendente l’esperienza quotidiana che si cristallizza in un particolare significativo, che dà ad un momento la sua ragione d’essere. Quale momento? Ogni momento è buono! Non è l’oggetto e non è il soggetto ma è l’identificazione del soggetto con l’oggetto: il poeta non deve descrivere ciò che vede, ma essere, in quel momento, ciò che descrive.

Ulteriore appunto: si può comunicare correttamente quando vi è comune esperienza. Quando leggiamo di un’esperienza non sperimentata di persona, ci diventa difficile "immergerci" nella sua atmosfera. Siamo veramente in grado di penetrare lo spirito di haiku quali: zazen: / grasse zanzare / dappertutto (Taigi, 1709-72); sugli iris / lento planare / di un nibbio (Buson, 1715-83); trapiantando il riso / egli orina / nel campo di un vecchio amico (Yayu, 1701-1783); vecchio stagno, / salto e tonfo - / una rana (Bashô, 1644-94)?

Forse ad una mente occidentale riescono più comprensibili i miei: lunghi  capelli / divide all'alba la /droga con Rudra oppure, dopo il Plop! / della rana, che luce! / che meraviglia! .