GITA
A HEBRON
Di buonora sono uscito dal piccolo alloggio che
quest’anno ho preso in affitto, con me c’è Neera e non ho voluto lasciarla
andare da sola, ho deciso che d’ora in avanti la seguirò ovunque. Lei sembra
fatta apposta per me, non lascerò che se ne fugga via. A piedi raggiungiamo la
piazzetta in fondo alla via ove abitiamo, strada che passa in mezzo a tutta una
serie di villette ad un piano, garage e cantina sotto, quasi tutte uguali le une
alle altre e dipinte con colori pastello che il sole ha iniziato a sbiadire.
Siamo nella piccola piazza e attendiamo, ci siamo vestiti con jeans T-shirt,
giacca a vento e scarpe militari. Al mattino l’aria è fresca, ma poi tornerà
il forte caldo fino all’imbrunire, le escursioni termiche qui sono notevoli,
ma ci si abitua in fretta. Oggi è il primo giovedì del mese e come tutti i
primi giovedì Neera fa con gli altri questo viaggio. Il rombo d’un motore
potente giunge all’improvviso e due camion blindati entrano nella piazza, il
primo lentamente prosegue mentre il secondo si ferma per farci salire. Le
pesanti porte si chiudono dietro di noi e gli occupanti ci salutano
cordialmente, sono anch’io trattato come un vecchio amico, Neera l’aveva
avvertiti della mia presenza, chissà quali storie gli avrà raccontato! Sono
tutti fin troppo cordiali e in un primo momento mi sento un po’ imbarazzato.
Lei scrive vero? Fa pure il giornalista, ci hanno detto che è un nostro grande
amico e che sostiene con veemenza le nostre ragioni, ce ne vorrebbero tanti come
lei per contrastare le bugie che vengono scritte nei nostri confronti.
Fortunatamente queste frasi durano poco e mi
schermisco sorridendo, Neera coglie al volo il mio imbarazzo e comincia a
presentarmi proprio a tutti, ma i loro nomi sono troppi da ricordare e purtroppo
mi sfuggono. Gli autobus sono nuovamente uno dietro l’altro e proseguono
veloci, dai vetri antiproiettile scorgo gli sguardi ostili degli arabi quando
attraversiamo i loro villaggi, all’interno del bus la discussione ha trovato
altri soggetti alternativi alla mia presenza e fortunatamente mi stanno
ignorando immersi in un chiacchiericcio normale, quasi che questa fosse una vera
e propria scampagnata per ricongiungerci con vecchi amici che ci stanno
aspettando. Con loro comunque mi sento a mio agio, come se li avessi conosciuti
da sempre, nel bus tutto scorre tranquillo, c’è un’aria di festa e di gita,
la blindatura che ci separa dalla realtà ostile rende tutti tranquilli. Dopo
molte strade asfaltate tutte ma estremamente polverose e con un’infinità di
buche giungiamo infine a Hebron e prima ancora di scendere al nostro capolinea
ci lasciamo immediatamente conquistare dalla spiritualità che aleggia attorno a
questo luogo che fu la prima città ebraica e la prima capitale d’Israele. È
la prima volta che mi trovo in questi posti ma l’impressione che ne traggo è
d’intensa familiarità, è come se lo spirito e l’essenza d’Israele qui si
concentrino. Mentre sono immerso nei miei pensieri e assaporo questa sensazione
di familiarità, usciamo tutti all’aperto e respiriamo l’aria leggera e
fresca, nel bus era divenuta
viziata, ma che ne rendiamo conto solo ora. Con Neera sottobraccio mi avvio per
le stradine che si dipanano tortuose tra le case degli ebrei, case praticamente
sommerse da muraglie di sacchetti di sabbia tesi a proteggere gli abitanti dai
cecchini palestinesi. Incontriamo per strada conoscenti di Neera qui residenti e
tutti ci sorridono amichevolmente, una coppia ci fa sedere su due sdraie nel
loro piccolo giardino, ci portano una Coca ghiacciata formato famiglia nel
consueto bottiglione di plastica e dei bicchieri anch’essi di plastica,
bambini corrono e schiamazzano intorno. Li osservo mentre penso alle descrizioni
che la propaganda filopalestinese diffonde sugli ebrei di Hebron, raccontati
come bestie assetate di sangue, coloni violenti, bambini teppisti che si
divertono a distruggere i banchetti dei palestinesi nella piazza del mercato,
certi dell’impunità garantita dai soldati d’Israele che stazionano a ogni
angolo. La mia mente divaga mentre riposo in questo piccolo giardino circondato
da atmosfere contadine: penso a Bagdad, dieci anni fa quando nella notte
apparvero traccianti luminosi che giravano in tondo rincorrendosi, l’atmosfera
divenne improvvisamente da fantascienza. I globi luminosi si rincorrevano e
tutto prese un colore verde, l’antica Babilonia era spettrale, un silenzio di
tomba s’era impadronito dello spazio. Anche il tempo s’era fermato, tutti
guardavano con preoccupazione quelle luci che lente roteavano, molti si
riscossero e fuggirono nei rifugi allestiti in città. Poi i lampi di fuoco
seguiti a breve distanza da forti esplosioni mentre le postazioni militari del
tiranno iniziarono ad esser colpite. Ritorno alla quiete del piccolo giardino e
penso alle menzogne musulmane alle quali sempre in meno credono, almeno voglio
sperare. Comunque si stringe la gola a pensare a tutta questa falsa propaganda
che demonizza persone perseguitate da decenni e che sono costretti a vivere
giorno dopo giorno in uno stato di tensione disumana. Riprendiamo il nostro
giro, voglio attraversare tutte queste strade e vedo solo persone tranquille
anche se giustamente preoccupate e sicuramente un po’ spaventate, ma serene,
profondamente serene. Più avanti scorgiamo alcune donne col turbante che
chiacchierano davanti ad alcune porte, forse le loro case, e sorvegliano bambini
che giocano: ci lanciano sguardi curiosi come a chiedersi chi siano questi
strani personaggi che vengono a trovare le famiglie ebree una volta al mese e
sorridono a tutti, si mettono a giocare coi bambini, a chiacchierare coi soldati
onnipresenti ad ogni angolo di strada. Soldati stanchi, ragazzini anch’essi
che ormai vivono in simbiosi con la popolazione ebraica di questa terra e che
sono ormai divenuti loro figli adottivi o fratelli maggiori. I soldati ci
salutano, guardano discretamente le ragazze che sono scese con noi dai bus, le
belle ragazzine israeliane un po’ provocanti, un po’ timide che li
adocchiano e offrono loro una gomma o una sigaretta. Questi ragazzi in divisa,
armati fino ai denti se le mangiano con gli occhi, le ringraziano ma poi
guardano altrove perché è vietato distrarsi, potrebbe costare una punizione o
peggio la vita. Neera mi parla di un residente di qui, un grande maestro
cabalista e pittore, autore inoltre di molti libri di Cabala, un maestro della
Torah che deriva dall’albero della vita, ora ha deciso di trasferirsi con la
sua famiglia e i suoi studenti in un altro insediamento ebraico a pochi
chilometri da Ramallah per sostenere attivamente con preghiere cabaliste e canti
di fede e incoraggiamento i soldati impegnati in azioni militari in quella zona.
È inoltre divenuto un punto di riferimento e di sostegno per tutti coloro che
hanno perso familiari vittime del terrorismo. Mi dice anche il nome di questo
santo uomo, ma non riesco ad afferrarlo perché distratto dai miei pensieri su
un personaggio presente in alcuni miei racconti. Un santo sufi, un derviscio
roteante, nella realtà anche lui pittore. Gli abitanti di Hebron sono armati
fino ai denti, ma chiunque lo sarebbe in un posto ove anche uscire da casa per
comprare le sigarette o per portare il proprio figlio a giocare può costare la
vita. Ci allontaniamo dal centro del quartiere ebraico e saliamo sulla collina
che porta a Tel Rumeida, il cuore della Hebron biblica. Mi dice che possiamo
visitare la tomba di Rut tornata ad essere la tomba di Rut dopo che per anni era
stata trasformata in moschea. Neera sa che io con la religione non è che abbia
il mio santo, mi conosce perfettamente laico, amico d’Israele ma ateo, perciò
si sente in dovere di spiegarmi tutto, anche le cose che già conosco. Parla di
Rut la moabita, patriarca della casa di Davide, che dopo la morte in guerra del
marito rifiutò l’invito rivoltole dalla suocera Noemi di ritornare nel suo
villaggio in Moab alla sua famiglia d’origine, dicendole “Il tuo popolo sarà
il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio, dovunque tu andrai io ti seguirò”.
E ritornò assieme a lei a Bet Lechem. Accanto alla tomba di Rut è sepolto
anche Jesse il padre di re Davide. Entriamo e nella stanzetta minuscola e buia
illuminata malamente dalla luce di qualche tremolante candela, qualcuno prega,
un altro sta accendendo una candela, sicuramente ci sarà chi chiede una grazia
e tutti, me compreso siamo travolti dalla magia del luogo. Magia del buio e del
silenzio, interrotto in parte dal brusio delle preghiere, anche fuori domina
l’assenza di rumori interrotta a tratti dal cinguettio degli uccelli, il cielo
è blu al tramonto, lo stesso blu terso di Gerusalemme e sotto i miei piedi, la
terra che ricopre i resti del palazzo di re Davide. Divago, ho la testa piena
degli articoli che devo buttar giù su questi posti: qui l’unico turismo è
quello religioso che si concentra soprattutto a Gerusalemme, a Zfat e a
Tiberiade, Israele oltre ad essere all’avanguardia nel campo della ricerca
medica sta divenendo anche un centro mondiale d’avanguardia nel campo della
medicina naturale e nelle terapie alternative. Molti medici e rabbini, anche
cabalisti praticano già abitualmente l’agopuntura. C’è poi un progetto
iniziato con la Siria teso a trasformare una parte di deserto in foresta, già
sono stati piantati diecine di migliaia d’alberi…
Mentre gli altri stanno recitando, mi dice Neera,
“Ascolta Israele” noi scendiamo a piedi diretti verso il centro della città.
È già buio e la piazza antistante la grotta della Machapela, la grotta dei
patriarchi si sta facendo silente e deserta. Anche questo è un posto magico,
sembra d’udire il rumore delle carovane bibliche che entrano nell’antica
capitale. Nella grotta ci sono solo le tombe d’Abramo e Sarah, Giacobbe e Leah.
Qui gli ebrei possono entrarvi a giorni alterni, è assolutamente vietato
l’ingresso coi musulmani. Ripenso a Gerusalemme dove nessun ebreo può salire
al monte del Tempio. Saliamo in silenzio larghe scalinate ed entriamo in una
ampia aula illuminata da candele, migliaia di luci tremolanti sparse ovunque a
grappoli. Ceri che i fedeli accendono, uno per ogni membro della famiglia, anche
per i parenti più lontani o mai visti, tutti qui hanno la loro candela accesa
anche se non lo sapranno mai. Per gli ebrei c’è una tenda all’aperto ove
pregare e trovo tutto questo molto spirituale, tra gli squarci del tendone
s’intravedono le stelle, c’è un rabbino officiante e i fedeli rispondono
mentre alcuni bambini irrequieti giocano tra loro rumorosamente e nessuno li
zittisce. I bambini in Israele sono i veri padroni, padroni che a diciotto anni
devono servire l’esercito e forse non tornare mai più a casa. Ogni madre
pensa sempre con dolore a quel momento. Per le scale s’aggira un uomo
bellissimo, vecchio, con una corta barba bianca ben curata, è l’uomo che s’è
autoeletto a far da tramite trai fedeli e la divinità. Chi gli chiede di dare
la benedizione al figlio che si sposa o divorzia, chi va da lui pregando perché
qualcuno caro sta male o perché il padre o il figlio vanno in guerra e lui
prega e a ogni persona fa una carezza, senza mai chiedere denaro. A chi vuol
fare un’offerta indica uno scrigno d’argento vicino a uno dei sarcofaghi, lì
vanno a finire le offerte dei fedeli che serviranno a sostenere le spese di
mantenimento della grotta. Si avvicina sorridente, mi carezza il volto con le
sue mani affusolate poi le posa sulla mia testa, inizia a parlarmi in una lingua
che proprio non riesco a riconoscere. La sua voce è melodiosa, ipnotica,
avverto una sensazione di benessere che dalle sue mani giunge direttamente prima
alla mia testa tacitando ogni pensiero per poi defluire all’interno di tutto
il mio corpo. In questo preciso istante sono fuori dallo spazio e dal tempo, mi
trovo in una condizione di benessere totale e sento di non esser solo, sono
circondato d’amici, da divinità? Mi riprendo quando il santo è già lontano
da me e sento una gran confusione nel mio capo, Neera mi sta osservando, quasi
sostenendomi, con aria interrogativa.
-
Cosa mi ha detto? Le chiedo.
-
Ti ha benedetto con antiche preghiere.
-
Non ho capito una sola parola, non era ebraico vero?
-
No. Era una lingua molto più arcaica, ha detto che sei con noi sotto la
nostra protezione. Ha enunciato anche molte altre cose, ma neppure io l’ho
capite, l’ho però riconosciute come antiche preghiere.
-
Penso però che oggi siete voi che avete bisogno di protezione, non io.
Lei ride con quel suo sorriso misterioso e
inquietante e mi guida trai sarcofaghi dei padri e delle madri d’Israele che
sono letteralmente ricoperti d’arabeschi. Mi dice che la tomba d’Isacco è
stata edificata nel quartiere arabo, i non musulmani possono recarsi là solo
per dieci giorni l’anno, sempre molto democratici e liberali i beduini, penso.
Usciamo, ormai è buio, Hebron è completamente deserta a parte i soldati che
stazionano a gruppi e ci salutano tutti, ci guardano con nostalgia e come se
fossimo il tramite tra questo mondo silente, d’un silenzio carico di tensioni,
e quello dal quale provengono, Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme, le città
israeliane con i loro bar, le spiagge, le discoteche, ove anche loro come tutti
i ragazzi del mondo avrebbero diritto di stare e divertirsi. Tutti i ragazzi del
mondo compresi gli arabi se non venissero avvelenati fin da piccoli da odio e
menzogne, se non venissero istigati al “martirio” come massimo compimento
dell’esistenza. Il saluto dei soldati “Shalom” è disperato e disperante,
Pace? Quale pace? Dove sta la pace?
Qualche ebreo uscito dalla vicina sinagoga corre
verso casa chino su se stesso quasi a ripararsi da possibili pericoli. Paura?
Sicuramente sì e la si sente, la paura qui è una sostanza solida, tangibile.
Ripartiamo chiusi nei nostri bus blindati riattraversando le case del quartiere
ebraico sepolte tra monti di sacchetti di sabbia, con le finestre illuminate, ma
di queste vediamo solo la metà superiore. Finestre e porte sbarrate, fuori sui
tetti delle case arabe di Tel Rumeida potrebbe esserci un cecchino nascosto
pronto a colpire l’ebreo di turno.
Chiudo gli occhi mentre il bus cammina e mi lascio
cullare dai ricordi: i primi anni che ho trascorso in Israele alloggiato vicino
all’università di Gerusalemme, quando con la mia auto scassata giravo sempre
tra le colline e l’asfalto zeppo di buche faceva gemere tutte le giunture dei
mio precario automezzo. A piedi per Gerusalemme, l’unica città al mondo ove
poi vagare in pigiama e pantofole senza destare alcuna curiosità. Fermo da solo
in un desolato parcheggio tra colline e vallate che arrivano fino al Sinai:
ulivi, pini e in lontananza il rumore affievolito d’un trattore. Gerusalemme
è sempre distrutta, malgrado si costruisca in continuazione, il ricordo della
distruzione permane. La sua periferia sempre in allerta, tutto è confine, la
zona di frontiera passa ovunque, anche o forse soprattutto nelle nostre menti.
Il vento robusto del mare si scontra con quello del deserto carico di sabbie e
di promesse mai mantenute. In moto per il deserto con la mia ragazza saldamente
afferrata a me, quella che fu per anni il mio amore, ma che adesso più non c’è
vittima di questa assurda guerra mai dichiarata.
Il bus blindato prosegue indifferente la corsa di
ritorno col suo carico umano cullando i miei pensieri che stanno esplorando
ricordi confusamente mischiati ai confini della mia mente, confini che
qui passano anche all’interno di ogni pensiero. Mi rendo conto d’essere
ormai indissolubilmente legato a questa difficile terra: Neera dorme appoggiata
accanto a me e una sua mano stringe gentilmente la mia.