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vittorio baccelli – i racconti – terzo
sigillo –
LA NERA TORRE
Ecco il mio primo pensiero: mentiva fino in
fondo
quello storpio canuto
dagli occhi maligni
volti di sbieco a scrutare
l’effetto dell’inganno
sui miei; la sua bocca
a stento tratteneva
l’esultanza che
increspava il profilo delle sue labbra
Per aver fatto un’altra
vittima.
(da “Childe Roland alla Torre Nera giunse” di Robert Browning)
Alta più del doppio d’un severo campanile, la torre era interamente costruita con enormi massi squadrati di una strana nera pietra.
Aveva una base esattamente quadrata e lungo i suoi possenti fianchi non presentava né finestre, né aperture di alcun tipo.
All’apice terminava con uno spiazzo anch’esso quadrato disegnato da parapetti alti circa un metro.
La torre scorreva non solo nel tempo e nello spazio, ma adesso se ne stava poggiata su un deserto di sabbie infuocate e nella notte le sue pietre sembravano assorbire sia il calore delle sabbie che il buio circostante. Si presentava come un monolito nero che si stagliava nella pur profonda notte.
Sull’alta terrazza due figure s’intravedevano nelle tenebre. Elisabetta e l’inquisitore stavano in silenzio con gli occhi fissi verso l’immensa distesa di sabbia.
L’inquisitore attendeva Gabriel, il guardiano, la donna invece era salita per noia, e distrattamente osservava il deserto sconfinato.
Gabriel giunse all’improvviso, e un lampo di luce annunziò la sua presenza. Gabriel era il guardiano della Torre Nera e degli altri manufatti che navigavano nell’esistente garantendo gli equilibri del persempre mainato.
Tutti e tre si teleportarono nella stanza dell’inquisitore che era proprio al centro della torre, Elisabetta era da molto tempo che non metteva piede in questo locale e si guardò curiosamente attorno. Subito notò che l’enorme crocifisso in legno antico appeso ad una parente, proprio davanti all’inginocchiatoio, era scomparso ed al suo posto ora c’era una più modesta croce in legno bianco con i quattro bracci delle stesse dimensioni. Non era appesa alla parete, ma fluttuava a qualche centimetro di distanza dal muro.
Elisabetta ascoltava distrattamente la discussione trai due che si erano seduti su dorati scranni, stavano dilungandosi sulle loro responsabilità, la torre nera funge infatti da catalizzatore alla coesione degli universi, assieme ad altri manufatti vaganti oltre l’infinito che raccolgono varie forme di “mana” cedendole alla torre.
Elisabetta già conosceva queste cose, ed a lei non fregava proprio nulla d’approfondirle, così sempre più annoiata si ritrasferì sull’ampia terrazza, l’unico punto della torre per lei sopportabile. Aveva anche le sue stanze all’interno, ma le occupava di malavoglia, sapeva che nella torre si misuravano più culture, ma lei girava nel manufatto il meno possibile.
La torre, che non poggiava mai sulla stessa superficie, s’era nel frattempo spostata, ed il deserto con le sue infuocate sabbie era scomparso, al suo posto vi era una periferia urbana, con strade malamente illuminate da lampioni elettrici, condomini cadenti, rottami di auto al lato delle vie.
Elisabetta si sporse e con attenzione guardò il grande viale che si stendeva sotto la torre. Scorse un uomo avvicinarsi incuriosito, fermarsi a guardare in alto. Elisabetta fece un cenno di saluto con la mano, ma non era sicura che lui l’avesse visto, tanto era alta la torre, e poi era anche qui notte.
In basso l’uomo aveva estratto dalle tasche un taccuino ed un lapis e fermo davanti alla torre stava scrivendo qualcosa, Elisabetta non riuscì a trattenere un sorriso, le era venuto in mente un poliziotto del XXI secolo che estratto il blocchetto delle contravvenzioni stesse facendo una multa per divieto di sosta alla torre, e pensò pure, adesso cercherà il tergicristallo per lasciarla, ed avrà un trauma perché non troverà proprio nessun appiglio: il sorriso si trasformò in cristallina risata.
L’uomo girò attorno alla torre, poi cominciò a toccare la pietra con le mani, forse cercava aperture, ma aperture non ve ne erano.
Ad un certo momento Elisabetta non lo vide più, guardò attentamente attorno ai quattro lati, ma lui era proprio sparito. Pensò: sarà entrato? Ma come? O forse non era un uomo ma un ologramma o un’entità? La donna scosse i suoi biondi lunghi capelli al vento della notte, appoggiò i gomiti alla balaustra e con i palmi delle mani si tenne la faccia, ed in questa posizione s’accinse a trascorrere ciò che restava della notte perdendosi nei suoi pensieri.
* * *
Sono un agente investigativo della polizia dei suburbi londinesi, il mio compito è pattugliare un settore periferico fino all’alba. Non mi distinguo dagli abitanti notturni della periferia urbana perché sono all’aspetto simile a loro. Jeans, t-shirt con disegnato un teschio fluorescente, giaccone di pelle nera senza maniche dal quale spuntano le mie due braccia ricoperte da tatuaggi tribali, ho poi in piedi due stivaletti borchiati, al collo una catena metallica, possiedo dunque tutti gli accessori classici del bullo notturno.
Ciò che non si vede sono le mie protesi impiantate, armi da difesa e d’offesa e sono costantemente collegato in rete con la centrale. Pattuglio il quartiere a bordo di una moto ad idrogeno silenziosa e veloce.
Adesso mi trovo nella zona più periferica e desolata del mio quadrante, sono infatti giunte molteplici segnalazioni di una attività totalmente insolita: sembra che un edificio enorme a forma di torre medioevale si sia materializzato nel quartiere, il che è assurdo, o qualcuno s’è sbizzarrito con un ologramma gigantesco, oppure vi sono stati avvelenamenti collettivi di sostanze allucinatorie, comunque è bene indagare.
Passo più volte lungo le strade e le piazze, ma non scorgo niente d’insolito. Giro intorno ad uno spazzo lastricato che in tempi migliori era un parcheggio di un ipermercato e non scorgo niente al di fuori del solito degrado.
Mi fermo nel bel mezzo del parcheggio e scannerizzo la zona: strane vibrazione cromatiche mi avvertono che qualcosa di recente c’era effettivamente in questa piazza, ma non riesco a comprendere cosa, passo allora al setaccio l’intera area per vedere se vi sia niente d’insolito, ma trovo solo i soliti rifiuti urbani consueti.
Ad un lato della piazza vi è un unico rilevamento incongruo, ma che forse non ha niente a che fare con le segnalazioni, lo scanner mi segnala un oggetto ligneo o cartaceo delle dimensioni 9x14x1,3, sono le dimensioni di un portafoglio.
Mi dirigo nel luogo segnalato e raccolgo da terra un taccuino con foderina nera. Lo prendo e me lo infilo in una tasca del giaccone, poi segnalo alla centrale che non ho rilevato niente d’interessante e proseguo fino all’alba nel consueto giro di pattugliamento notturno.
Nel pomeriggio, dopo un sonnellino ed un pranzo mi ricordo del taccuino, lo estraggo dalla tasca ed immetto l’immagine nella banca dati, subito giunge la descrizione accurata dell’oggetto, è un Moleskine, il leggendario taccuino usato dagli artisti e intellettuali europei che hanno fatto la cultura del novecento, da Henri Matisse alle avanguardie parigine d’inizio secolo, la Louis Férdinand Céline a Hernest Hemingway; una tradizione raccolta e resa celebre dallo scrittore viaggiatore Bruce Chatwin.
Un semplice rettangolo nero, con le pagine a quadretti o a righe, i risguardi trattenuti da un elastico, una tasca interna per custodire foglietti volanti, una rilegatura in moleskine, tela cerata, da cui prende il nome. Compagno di viaggio tascabile e fidato, ha conservato appunti, storie, pensieri e suggestioni prima che divenissero le pagine di libri di successo.
Chatwin comprava i moleskine in una cartoleria parigina in rue de l’Ancienne Comèdie, ne faceva sempre una scorta prima di partire per i suoi viaggi. Aveva un suo rituale messo a punto negli anni: prima d’usarli ne numerava le pagine, scriveva all’interno il suo nome ed almeno due indirizzi , con la promessa di una ricompensa per chi lo restituisse in caso di smarrimento. Perdere il passaporto era l’ultima delle sue preoccupazioni, perdere il taccuino, una catastrofe.
Suggerì questo sistema anche all’amico Luis Sepùlveda, quando gli regalò per il viaggio in Patagonia, che non avrebbero fatto assieme, un prezioso moleskin. Prezioso perché ormai non se ne trovavano più . Nel 1986 era venuto meno anche l’ultimo produttore proprietario di una piccola azienda familiare di Tours.
“Le vrai moleskine n’est plus” questo fu il lapidario annunzio della proprietaria della cartoleria a Chartwin che ne aveva ordinati cento prima di partire per l’Australia.
Chartwin acqistò tutti i moleskine che riuscì a trovare, ma non furono abbastanza.
Il leggendario taccuino, anonimo custode di una straordinaria tradizione era un distillato di funzionalità e un accumulatore d’emozioni che libera la sua carica nel tempo. Dal taccuino originale era nata tutta una famiglia di tascabili essenziali e fidati: copertina rigida rivestita in moleskine, chiusura ad elastico, rilegatura a filo di refe, soffietto portanote interno in cartoncino e tela, scheda mobile con la storia del Moleskine. Produzione cessata nel 1986.
Perplesso assimilo la descrizione analitica che la rete mi fornisce, cessato nel 1986, ma questo cazzo di Moleskine che ho in mano sembra nuovo!
Solo allora mi decido ad aprirlo ed a leggere il contenuto, alzo l’elastico nero e sfoglio la prima pagina.
Sul retrocopertina, in basso c’è la scritta piccola “Moleskine” dunque le informazioni sono esatte, manca la data di fabbricazione e ove dovrebbe esserci il nome e l’indirizzo del proprietario, vi sono solo svolazzi a lapis senza senso.
Nella taschina terminale in tela e cartoncino trovo la scheda con la storia del taccuino, un segnalibro con la riproduzione di un dipinto e la scritta: serie “i quattro elementi della natura” FUOCO creazione di Vibo Valentino 1998. From a painting by V.Valentino. Vi è poi un ritaglio di quotidiano con un cruciverba in lingua italiana, un quadretto di carta rossa con su appuntati degli indirizzi web e una piccola scheda magnetica che assomiglia molto ad una memoria solida, senza alcuna scritta o indicazione.
Sfoglio le pagine del taccuino e nelle prime trovo tutta una serie di disegni a penna raffiguranti strutture megalitiche in pietra a forma di porta con le descrizioni: triliti di Sarsen, strutture a forma di portali, dioriti maculate pietre blu (davanti). Vi è poi una scritta che occupa tutta una pagina < LA DANZA DEI GIGANTI >
Segue poi un disegno a matita di un ovale con all’interno la testa di cane, sembra un bracco. Prosegue il foglio successivo con una poesia:
Acque di luce in successione
Caos in sé
Stella danzante
Generata nel gioco
Portale di pietra
Equilibrio
Del destino la forza
Della porta senza porta.
La Nera Torre inseguo
Nella confusione dei ruoli
Nel divenire dei tempi.
Nell’ultima pagina vi sono una serie di righe tracciate in verticale e poi il disegno di una torre a base quadrata, tutta nera, senza aperture lungo i suoi fianchi.
Fittamente vi è poi scritto.” Sento che oggi dovrebbe apparire in questo sperduto angolo di Londra, proseguo lungo la via che all’inizio sembrava condurre ad un quartiere signorile, man mano che avanzo, lentamente tutto sembra cambiare. I bei palazzi con i giardini attorno sono sostituiti da edifici cadenti, erbacce nelle piazzole, carcasse d’auto arrugginite lungo i marciapiedi, illuminazione in parte spenta, carrelli d’ipermercati che non esistono più qui da decenni, abbandonati anche nel centro della strada. Nessuno nella via, anche i palazzi delle abitazioni hanno pochissimi rettangoli di luce. Un cane sta ululando in lontananza. Ed ecco la Torre, l’ho vista, è proprio in fondo alla piazza che sorge a destra della strada…e gigantesca….è apparsa silenziosamente dal nulla. Lascio questo mio taccuino qui in terra al lato della piazza, se riuscirò a penetrare la Torre il taccuino resterà qui a mia testimonianza, e chi lo raccoglierà so che sarà il prescelto. Mi rivolgo a te: conservalo, qualcuno si metterà in contatto, solo allora saprai cosa fare, è il tuo destino, così è stato scritto e così sarà”
Sono un po’ perplesso, non sapevo di far parte delle profezie. Comunque ho trovato un pezzo d’antiquariato, e a me piace collezionare le cose antiche, questo Moleskine finirà subito nella mia collezione, lo strano è che non sembra così antico, anzi per la verità sembra uscito ora dalla produzione.
LA DONNA DEI GATTI
Tutti a quell’epoca la conoscevano come Marina la bella, e veramente era proprio un sogno di ragazza, la reginetta di tutte le feste, la miss ad ogni concorso di bellezza.
Per lei la vita si era trasformata in un romanzo rosa, la sua fantastica bellezza era sbocciata all’improvviso all’età di diciassette anni, prima di allora era solo un’insignificante ragazzina pelle ed ossa.
Tutti la desideravano e lei si nutriva dei desideri altrui ed appariva sempre più affascinante. S’innamorò di un suo vecchio compagno di scuola e decise d’abitare assieme a lui, ma la vita di coppia l’annoiava a morte ed inoltre l’intralciava nell’esposizione pubblica del suo fascino.
In breve decise così che casa e famiglia, figli e cucina, non erano proprio per lei, si trasferì in pieno centro ed a cifre iperboliche iniziò a vendere le sue grazie.
Fu questo il suo periodo d’oro, i clienti certo non mancarono e giungevano anche dai paesi vicini.
Divenne così una delle stelle del sistim più ricercate, ed in contemporanea centinaia di clienti erano collegati con lei e nel suo corpo vivano ogni sua attività erotica. In quei tempi era conosciuta come Marina la troia, la cocotte più arrapante del pianeta.
Man mano che il tempo passava il suo amore nei confronti degli uomini si affievoliva sempre più, mentre le si era risvegliato potente un forte amore verso gli animali.
Aveva una splendida villa situata alla periferia delle sua città e nel parco ospitava un intero esercito di animali che aveva trovato randagi ed abbandonati.
Anche le sue attività erotiche iniziarono a spostarsi su gli animali ed i clienti sistim in breve scapparono quasi tutti scollegandosi definitivamente da lei.
Erano arrivati nuovi contatti ma Marina si rese conto che si trattava in prevalenza non di amanti degli animali ma di sadici pervertiti. Così decise di scollegarsi da tutti, tanto problemi finanziari non ne aveva.
Passava il suo tempo ad accudire gli animali che aveva raccolto e girava per la metropoli distribuendo acqua e cibo nei punti strategici: sottopassaggi pedonali, ingressi abbandonati della metropolitana, case ed opifici dismessi.
Era sempre più trascurata nel vestire ed adesso era una vecchietta che carica di borse di plastica s’aggirava nelle zone più malfamate per la distribuzione del cibo.
Anche i soldi iniziarono a scarseggiare, dovette abbandonare la villa ed il parco, disfarsi di ogni suo bene.
Si trasferì nella baraccopoli di cartone che era sorta nell’immensa stazione ferroviaria, oramai abbandonata da decenni, ed in un angolo si costruì la sua casa di cartone. Adesso era conosciuta come Maria la sudicia, e le sue giornate erano esclusivamente impegnate nella consegna dell’acqua e del cibo ai suoi amati animali a quattro zampe che lei amava sempre di più.
La baraccopoli di cartone, sorta nella cadente stazione, era abitata da barboni, senzatetto, rifiuti umani d’ogni genere, ma tutti loro lasciavano miseri avanzi a Marina perché li portassi agli animali randagi della metropoli.
Trascorsero gli anni e dell’antica bellezza non v’era più traccia, una notte mentre stava distribuendo un po’ di cibo ad un angolo di un sottopassaggio pedonale in uno dei quartieri più malfamati, una gatta bellissima con il manto di color grigio argento le si avvicinò ronfando. Lei prese ad accarezzarla ed ammirò la sua bellezza: era agile e snella, grande quasi il doppio dei normali randagi, l’argento del suo pelo sembrava risplendere nella notte e gli occhi, gli occhi erano poi meravigliosi, dello stesso colore della pelliccia.
Marina si sentì attratta da questo splendido animale che a lei si strusciava ronfando e che sembrava le facesse cenno si seguirla.
Marina come in trance si rialzò, e la gatta miagolando si avviò su per le scale del sottopassaggio, girandosi costantemente verso di lei come se facesse cenno di seguirla.
E Marina le andò dietro, risalì il sottopassaggio cercando di non scivolare sulle montagnole di putridi rifiuti che si erano accatastate sugli scalini, attraversò una strada, entrò in una corte e da questa sbucò in un viale alberato disseminato ai lati da carcasse di vecchie auto arrugginite.
La gatta si voltava continuamente quasi per accertarsi che lei la seguisse, dopo alcuni chilometri in aree desolate della metropoli, la gatta si fermò davanti ad un edificio che sembrava interamente costruito con specchi.
Lei la raggiunse ed uno specchio scivolò di lato scoprendo una stanza fortemente illuminata, la gatta entrò e Marina la seguì.
In una stanza vi era un autodoctor ed il coperchio della pseudobara era aperto, la gatta si fermò davanti all’autodoctor accucciandosi sulle zampe posteriori e mentre guardava la donna alzava ritmicamente il muso come se volesse invitarla a prendere posto entro l’autodoctor.
Marina guardò la macchina e poi interrogativamente la gatta e le disse “ Ma sei matta? Cosa vuoi, che entri lì dentro? Non sai che per rimettermi in sesto occorrerebbe tutta la fortuna che un tempo avevo e che oggi non ho più? Quest’aggeggio funziona solo con tessere di credito, ed io non ne posseggo da tempo”
Ma la gatta seguitava a fissarla, a ronfare e a far cenni con la testa, al che Marina pensò che forse era ammattita del tutto, però ad entrare nell’autodoctor non ci avrebbe rimesso niente.
Così si spogliò di tutti i suoi stracci ed entrò nella macchina convinta che non sarebbe successo nulla.
Si accomodò sul soffice fondo ed all’interno s’accesero mille led, poi lentamente il coperchio si richiuse e lei perse conoscenza.
Quando si risvegliò, la pseudobara era aperta, si guardò intorno e vide che il suo corpo era ridivenuto quello di un tempo, quando era la bella, quando era la troia.
Piena di gioia, s’alzò in piedi, uscì dalla macchina e prese ad ammirarsi negli specchi.
Alcune lacrime cominciarono a sgorgare dalle sue ciglia, si guardò intorno alla ricerca della gatta, ma di lei nessuna traccia.
Allora si ricoprì, solo un poco con i suoi stracci, riprese le borse con le bottiglie di plastica piene d’acqua ed il cibo per gli animali, e uscì in strada alla ricerca della stazione ignorando i passanti che la fissavano incuriositi, pensando forse che questa bella gnocca seminuda ricoperta solo da qualche straccio non doveva avere tutte le rotelle a posto, o forse era solo una tossica completamente scoppiata
Le ci volle un po’ di tempo per ritornare nei luoghi del quartiere ove abitava perché non conosceva bene quella parte della città ove era stata miracolata dall’autodoctor.
Infine vide la stazione, entrò e si recò nel suo angolo.
I barboni la osservarono a lungo in silenzio, erano incerti che fosse proprio lei, ma nessuno disse nulla.
Marina ritornò comunque alla vita di tutti i suoi giorni, rimaneva nella stazione, raccoglieva il cibo per i suoi animali, riempiva le bottiglie d’acqua e faceva il giro di tutti gli angoli del quartiere per distribuire tutto agli animali, salvo qualche piccola cosa che usava per la sua sopravvivenza.
L’unica differenza dovuta alla sua ritrovata bellezza fu quella che ogni notte, più volte qualcuno alzava i suoi cartoni divisori che segnavano la sua abitazione, e la violentava. Lei lasciava sempre fare e ogni notte godeva più volte, il risultato fu anche che al mattino trovava sempre più cibo per i suoi veri amici.
Il tempo impietoso lentamente passava ed un giorno guardandosi in una vetrina blindata del centro si accorse che era di nuovo ritornata ad essere Marina la sudicia, la matta vecchietta che passava i suoi giorni a sfamare gatti e cani randagi.
Una sera mentre era intenta a riempire d’acqua una scatoletta arrugginita in quello stesso sottopassaggio pedonale ove diecine d’anni prima aveva fatto l’incontro che le aveva fornito una seconda giovinezza, quando rialzò la schiena, rivide davanti ai suoi occhi, meravigliosi occhi felini di color grigio argento.
Ancora una volta la gatta la stava aspettando e voleva che la seguisse. Marina l’accarezzò lungamente tra le lunghe orecchie e la gatta facendo le fusa s’incamminò su per i viscidi scalini.
Marina questa volta la seguì spedita e sicura, lungo il viale che si allontanava dalla città.
Camminarono a lungo, la gatta avanti e lei dietro, superarono la zona che un tempo era residenziale e giunsero davanti ad opifici abbandonati ove macchie di ruggine tracciavano l’asfalto screpolato e tubi di materiale indefinito ostruivano parte della strada, il panorama era quanto mai desolato, sembrava che tutto quanto fosse stato bombardato diecine d’anni prima, ed odori tossici ancora in alcuni punti si levavano nell’aria in volute di sottile fumo azzurrognolo.
Le rovine lasciarono posto ad un’erba insana d’odore e colore putrescente, poi l’erba si fece più rada ed al suo posto erano nate siepi irte di spine pungenti. La strada era quasi soffocata dai rovi ed il manto era ormai di terra battuta.
Stavano camminando forse da dieci ore e la notte era trascorsa da molto, il sole alto nel cielo, stava riabbassandosi all’orizzonte, giunse un nuovo crepuscolo e loro lentamente proseguirono il viaggio.
I rovi lasciarono il posto a filari di piccoli alberi, poi la strada divenuta ormai un sentiero attraversò un’intera foresta, mentre il percorso saliva sempre più, la foresta divenne d’alti abeti.
Ormai era notte fonda, la foresta era anch’essa terminata ed ora un prato discendeva verso una buia pianura.
Alla fine del prato la sabbia di un deserto iniziò a scricchiolare sotto i piedi di Marina che si stava domandando come mai non fosse ancora stanca morta, infatti l’orizzonte iniziava ad illuminarsi, l’alba era vicina.
Adesso solo dune di sabbia, davanti e dietro, poi ad un certo punto una costruzione in lontananza, sempre più vicina man mano che lei s’avvicinava.
Era una enorme torre di pietra nera a base quadrata che s’ergeva imponente, e senza alcuna apertura sulle sabbie ora infuocate da un sole impietoso.
Marina s’avvicinò sempre più alla costruzione finché giunse a toccare con una mano la sua base, la gatta era sempre avanti a lei.
Ad un tratto la gatta si girò, poi attraversò il muro di pietra, entrò proprio dentro la solida pietra.
Marina la osservò prima perplessa, poi decise di seguirla, avanzò di alcuni passi verso l’edificio, poi al momento dell’impatto chiuse gli occhi e mentre aspettava il colpo, non sentì niente e proseguì per alcuni metri, era certa d’essere all’interno della torre, solo allora aprì gli occhi e vide….
* * *
< Benvenuta ad Agart > sentì distintamente nella sua mente. La sovrastava un essere estremamente informale composto a metà strada tra il gassoso ed il gelatinoso.
< Sono la tua guida, la mia vista forse ti disturba? > e senza attendere una risposta da Marina che lo stava osservando a bocca spalancata, vibrò con tutto il suo corpo quasi gelatinoso ed assunse l’immagine di una giovane donna senza veli dalle sembianze vagamente orientali.
Marina era sempre più stupefatta mentre la voce proseguiva nella sua mente < Penso di essere adesso più accettabile, ma dimmi, ti ha portato Seth? >
- Seth? La gatta?
< Si >
- E’ stata proprio lei a condurmi qui, ora dov’è, che non la vedo? Ma non è il nome di una divinità egizia?
< Forse, lei è quasi una dea, ti ha voluto e ti ha portato >
- Perché?
< Non so, ma l’Aio ti istruirà, hai un compito da svolgere. Ma prima di lasciarti all’Aio devi seguirmi, ti preparerò e ti renderò presentabile >
Detto questo s’incamminò verso una nicchia posta in una parete seguita da Marina, appena entrarono nella nicchia lei avvertì una sensazione di veloce discesa, poi questa specie d’ascensore terminò la sua corsa fermandosi in una sala gigantesca che terminava con un corridoio lunghissimo, numerose porte s’aprivano sui suoi due lati.
La Guida toccò una delle porte dopo aver percorso un centinaio di metri lungo il corridoio, la porta silenziosamente scivolò di lato scoprendo una stanza quadrata rivestita di piastrelle ceramiche.
Lei entrò, la porta si richiuse alle sua spalle lasciandola sola mentre una nebbia iniziò a scendere dal soffitto. Divenne difficile vedere nella stanza poiché la nebbia si faceva sempre più fitta.
“Sembra d’essere in una sauna” pensò Marina mentre si toglieva gli stracci che la ricoprivano, poi si lasciò a lungo massaggiare dal vapore purificatore e tonificante.
Perse la nozione del tempo e quando la nebbia diradò si trovò sdraiata in posizione fetale sul pavimento, si guardò intorno e vide che non vi era più nessuna traccia degli abiti che s’era tolti.
Pian piano i vapori svanirono del tutto e l’aria divenne nuovamente limpida, le pareti, intanto, cominciarono a farsi riflettenti così come il pavimento ed il soffitto.
Marina si guardò riflessa all’infinito all’interno del cubo di specchi, era bella come non mai, ancora una volta, la terza, si ritrovò diciottenne, ma questa volta con una marcia in più.
La porta si riaprì e la Guida l’attendeva con una tunica gialla trasparente, ancor più soffice della seta, che lei indossò, ed un paio di sandali dello stesso colore.
La Guida la condusse in un altro corridoio, poi salirono una lunga rampa di scale e sbucarono in un salotto accogliente.
< Devi attendere qui, il tuo Aio sta per arrivare >
Si guardò intorno, la stanza era finemente arredata con gusto, quadri alle pareti, pavimento in legno laccato con un gran bellissimo tappeto orientale nel mezzo, una scrivania di stile settecentesco con un divano e poltrone ricoperte di velluti, una parete era interamente ricoperta da una libreria colma si volumi, una pianta tropicale occupava un angolo della stanza.
Mentre lei osservava, apparve da una porta nascosta l’Aio, un distinto signore sulla quarantina, elegantemente vestito, che sorridendo la salutò.
- Ciao Marina, questa è una stanza d’apprendimento, accomodati pure e preparati ad ascoltarmi con attenzione. Prima di tornare da dove sei venuta, dovrai conoscere alcune cose. Ciò che udrai, ti rimarrà impresso nella mente e quando avremo finito saprai perché sei qui, e quale sarà il tuo compito.
- Vorrei capire alcune cose…
- Non aver fretta, conoscerai tutto, mentre io parlo riuscirai anche a visualizzare i concetti, come se tu fossi collegata in rete, sei pronta?
- Sì, mi metto qui sdraiata sul divano, come se fossi da uno strizzacervelli.
- Perfetto, cominciamo.
E le luci si fecero soffuse, l’Aio si sedette dietro la scrivania, e nella stanza una voce melodiosa guidò l’apprendimento.
< La Torre è l’ingresso ad Agart. Agart è il luogo deputato all’equilibrio ed al contenimento delle aperture radianti, esso è fuori e nello stesso tempo è il centro della Totalità. Negli universi i nodi di Bose portano all’istante da un punto all’altro, sempre all’interno dello stesso universo, grosso modo sono quelli che vengono definiti dalla letteratura, scientifica e fantastica, i punti di passaggio attraverso l’iperspazio. Sulla Terra e su altri pianeti vi sono i portali che conducono ad altre infinite Terre e pianeti, che hanno attraversato percorsi analoghi o devianti. Nel complesso meccanismo della Totalità di cui noi siamo contemporaneamente fuori ed il centro, s’è insinuata una realtà paradosso che rischia di dilatare le aperture radianti in modo incontenibile e di rendere confusa la Totalità.
Abbiamo scoperto che la causa di questa pericolosa anomalia risiede nell’opera del Tessitore. E’ stata proprio Seth ad individuarlo: è un terrestre del XXI secolo. In questo passato, che per te Marina sarà il futuro, lo incontrerai e questa sarà la tua missione, incontrarlo, capire cosa sta facendo e come lo sta facendo, indurlo a fargli chiudere la realtà paradosso, facendogli capire i rischi che per il suo comportamento, la Totalità corre. Nel XXV secolo, su una delle Terre, un gruppo ha già intrapreso questa strada, tu dovrai unirti a loro, ma secondo Seth, sarai tu ad incontrarlo e solo tu potrai far chiudere l’anomalia. Ecco ciò che farai: ti unirai al gruppo di ricerca, quando sarai pronta t’incontrerai col Tessitore, visiterai la realtà paradosso e riuscirai a farla chiudere.>
Marina si accorse che la lezione era terminata, le luci infatti ritornarono normali e l’Aio la stava guardando.
- Sembra che m’abbiate preparato una bella vacanza organizzata.
- Prendila pure come una vacanza, ma la cosa è estremamente seria.
- Io sarei anche pronta.
- Adesso starai un po’ con noi, poi partirai ma sarai sempre in contatto con me, saprò consigliarti e farti tornare qui in caso di pericolo.
- Ho capito, però adesso ho un fame da lupi.
L’Aio s’alzò, la prese a braccetto ed insieme uscirono dalla stanza per recarsi in uno dei più esclusivi punti di ristoro di Agart.