MAIL ART.8

 

Come definire in poche parole questo smisurato intreccio di comunicazioni chiamato arte postale o in inglese mail art? "L’uso del mezzo postale per creare opere ed eventi artistici" sembrerebbe essere la risposta più ovvia e semplice: cartoline, lettere, francobolli, timbri d’artisti quindi, ma in realtà anche libri, cassette audio e video, poesie oggettuali, CD rom e qualsiasi altro oggetto comune o stranezza che si possa far passare attraverso i sistemi postali. Perché non si possa confondere l’arte postale con una semplice promozione artistica per corrispondenza, mancano alla definizione alcuni importanti elementi, ovvero concetti quali: gratuità, apertura, interazione. L’arte per corrispondenza è per sua stessa natura un’espressione effimera praticabile anche con una semplice busta, penna e francobollo, questo alla portata di tutte le borse e aperta a tutti, senza alcuna forma di selezione dei partecipanti ai suoi vari progetti. Del tutto gratuita è la partecipazione e fruizione di ogni esposizione collettiva, quasi sempre ospitata in situazioni alternative e non istituzionali: niente biglietti d’ingresso, quote di partecipazione, premi, classifiche, cernita delle opere da esporre, mentre un catalogo o la documentazione anche minima della manifestazione viene inviata gratis a tutti i partecipanti in cambio dei lavori inviati che restano in proprietà agli organizzatori.

 Questa estrema apertura che pone sullo stesso piano gli elaborati dei principianti, dei bambini, degli anziani, degli artisti noti e meno noti, manda in cortocircuito non solo l’abusata e mortificante pratica delle esposizioni con giuria, premi e tariffe d’iscrizione, ma anche i criteri di lettura e d’analisi della critica d’arte tradizionale, mina le stesse fondamenta su cui si regge il sistema mercantile dell’arte ufficiale. L’interazione della comunicazione funzionante nei due sensi (botta e risposta postale, scambio individualizzato di materiali) prende il posto della comunicazione unidirezionale (quadro alla parete ed altri media tradizionali). L’arte tesa ad essere come nelle sue più lontane origini un processo che necessita di una partecipazione intima e personale, al tempo stesso allargata a chiunque, dall’alto valore socializzante. La copy art ha un posto di rilievo nel circuito postale, circa la metà degli invii sono ottenuti con l’uso creativo della fotocopia (fino agli anni ’90, poi pian piano lo scanner ed il PC stanno prendendo il posto delle fotocopiatrici). La novità non è assoluta, chissà quanti anonimi impiegati di altrettanto anonimi uffici hanno provato l’ebbrezza della creazione fotocopiandosi la mano al posto del documento urgente o chissà quante segretarie non hanno retto alla tentazione di provare con le proprie tette, approfittando della momentanea chiusura dell’ufficio. Ma la pessima qualità della stampa ha spesso scoraggiato sul nascere ogni velleità artistica legata all’utilizzo di questo mezzo. 

Sono personaggi come Andy Warhol, Robert Rauschenberg o Joseph Beuys, vale a dire la créme della pop art, che negli anni’60 riscopre il fascino di trasformare in opera dell’ingegno artistico la tecnica burocratica xerografica, conferendole la stessa dignità che avrebbero dato più tardi all’uso delle prime polaroid. Erano però intuizioni eccezionali dettate da improvvise curiosità più che da stimoli profondi. Doveva arrivare l’italiano Bruno Munari, vero enfant terribile della ricerca nel campo delle arti visive, perché nascessero le prime "xerografie originali" . Con lui un numero sempre crescente d’artisti comprese che era nata una nuova tecnica che non richiedeva capacità specifiche, né lunghi tempi di realizzazione. Per produrre una immagine bastava premere un pulsante. La fotocopiatrice diveniva così macchina fotografica, camera oscura e stampante allo stesso tempo, con un modesto costo che poteva esser affrontato da chiunque, un perfetto medium democratico, dunque. 

A sentire Bruno Munari in "1970 Xerografie" parrebbe proprio di sì "la grande arte di concezione borghese, fatta a mano dal genio solo per i più ricchi, non ha più senso nella nostra epoca… oggi l’arte è a disposizione di tutti" Se l’estremo tono sessantottino fa oggi un po’ sorridere, il tutto va inquadrato nel pensiero alla moda dell’epoca. Ma qual è stata allora l’idea portante del pittore e designer milanese? Seguire le regole della sperimentazione, disobbedendo ad ogni regola. Se le istruzioni d’uso d’ogni fotocopiatrice nella riproduzione d’un documento richiedono di tener il foglio ben fermo sul cristallo e di non muoverlo assolutamente durante l’esposizione alla luce, lui agisce sulla trasgressione e sull’errore voluto, non copre l’originale, gioca col foglio spostandolo con tempi e direzioni variabili : colpi di luce e trascinamento. I risultati sono sequenze d’immagini deformate, contorte o fluide, il più lontane possibile dal punto di partenza. E’ così che nasce il concetto quasi paradossale della "fotocopia d’autore" ancor oggi guardata con sospetto da parte di quella critica che si autodefinisce "seria", per la sua povertà e facilità e per il carattere quasi completamente automatico dell’esecuzione (simili critiche erano già state mosse nel passato alla fotografia ed al film). Anzi a più riprese il passatista versante ufficiale si scatenerà contro questa tendenza "è la disumanizzazione dell’arte" tuoneranno. La replica dei mailartisti è altrettanto pronta "la copiatrice è solo un filtro, o meglio un pennello, va saputa usare". E’ questa la tesi dell’americana Pati Hill, una delle prime a specializzarsi nelle riproduzioni d’oggetti (pettini, specchi, fiori, spazzole, piume) con una scelta di campo al limite della fotografia e dell’incisione "le mie sono immagini che hanno il solo scopo di piacere", dichiara.

- intervista a Claudio Parentela

  Vittorio Baccelli 8.