- vittorio baccelli - i racconti -
- apparso per la prima volta su "mainframe"
L’OSPITALE
Il pilota della navetta stava compiendo il solito
volo di routine dalla stazione orbitante terrestre all’avamposto lunare.
Era partito un’ora prima ed era immerso nella
lettura del suo settimanale preferito.
La sua presenza sulla navetta era del tutto inutile,
l’intero viaggio veniva comandato dal computer di bordo che era collegato
in rete sia con gli elaboratori della stazione che con quelli
dell’avamposto.
Ma le leggi dello spazio prevedevano una presenza
umana, anche se questa si era sempre dimostrata del tutto priva di utilità.
Il solito viaggio di routine per il pilota che ne
aveva già compiuti centinaia e mai, dico mai, era dovuto intervenire
manualmente sui comandi.
Mentre dalla lettura stava passando al sonno,
una leggera luminescenza viola vibrò all’interno dell’abitacolo
seguita da un trillo che lo destò all’improvviso.
Sorpreso dette un’occhiata alla consolle e vide un
led del computer di bordo che stava lampeggiando.
Dal verde il colore del led passò al rosso, poi
iniziarono ad accendersi tutti gli altri led della consolle ed allora il pilota
disinserì il computer e lasciò la navetta a volo libero.
Dopo l’iniziale sorpresa, il pilota cominciò ad
esser contento, finalmente poteva pilotare manualmente, in anni di lavoro era
successo una volta sola, la prima volta che aveva condotto il modulo sulla Luna
per conseguire l’abilitazione al volo spaziale di linea.
Tutti i mesi doveva fare un viaggio simulato in
preparazione proprio di quell’improbabile evenienza che oggi si era
verificata.
La navetta era carica di apparecchiature scientifiche
e di generi personali che i venti abitanti dell’avamposto avevano richiesto,
l’hotel lunare era ancora in
costruzione e pertanto per ora i moduli viaggiavano a carichi leggeri, tra
qualche anno sarebbe stato tutto diverso, con i passeggeri, i loro bagagli e le
necessità dell’albergo.
Mentre era immerso in questi pensieri, ed anche in
quello “finalmente questa volta si pilota sul serio”, accese il
comunicatore, ma non riuscì a captare alcun contatto, solo scariche e crepitii.
Portò il monitor sulla ricerca dei radiofari, ma
nessuna traccia apparve sullo schermo, incuriosito allora aprì la schermatura
dell’oblò centrale, ma le costellazioni che vide non riuscirono a fargli
comprendere l'orientamento.
A quel punto fece scarrellare sullo schermo la
visione del cielo che si scorgeva da tutta la nave.
La Terra e la Luna non erano visibili da nessuna
angolazione.
Immise le figurazioni delle costellazioni nella
memoria del computer, che era stato disattivato solo nelle funzioni di guida, ed
attese di sapere ove si trovava nello spazio.
Il computer dopo qualche minuto trasmise
“configurazioni stellari non in file”.
“Posizione spaziale non definibile” aggiunse il
computer dopo alcuni altri minuti.
A quel punto il pilota riprovò a trasmettere su
tutti i canali, ma non riuscì ad ottenere risposte.
Un pulsante rosso serviva per trasmettere l’S.O.S.
ed il pilota si decise ad attivarlo, in venti anni di funzionamento settimanale
delle navette, questa fu la prima volta che il pulsante venne premuto.
Ed adesso vediamo cosa succede, pensò il pilota,
mentre il modulo per inerzia stava sfrecciando chissà dove nello spazio.
Lentamente passarono le ore ed i giorni, il pilota
aveva ormai perso la nozione del tempo, mangiava dalle razioni che erano
abbondanti, beveva le bevande che avrebbe dovuto portare all’avamposto,
respirava l’aria che veniva nella nave riciclata quasi all’infinito.
Problemi di sopravvivenza immediati, non ve ne erano,
ma man mano che il tempo passava il pilota si sentì sempre più rassegnato a
finire i suoi giorni nello spazio.
Nelle memorie del computer c’erano un’infinità
di films e di programmi, aveva a disposizione enormi raccolte musicali ma la
solitudine cominciò a lasciar spazio alla disperazione.
Disperazione e rassegnazione, un senso d’impotenza
per non sapere dove si trovasse, in quale spazio, in quale tempo, in quale
dimensione, forse aveva incrociato quello che i vecchi scrittori di fantascienza
chiamavano un nodo di Bose, un passaggio, un portale, d'altronde le particelle
subatomiche spariscono da un punto per ricomparire istantaneamente in un altro,
ma la navetta non è una particella subatomica, o forse si, dipende dalle
grandezze in gioco.
Anche la piastra neurale era
inutilizzabile, essendo tagliato fuori dalla rete sia lui che il computer
di bordo.
Stava facendo alcuni esercizi di meditazione, quando
un trillo del computer lo riportò alla realtà.
S’avvicinò alla consolle e vide che una sottile
linea era tracciata nello spazio tra il suo modulo ed un punto che lampeggiava
con sequenza settenaria, situato ad una distanza imprecisata nello spazio.
Riattivò allora i comandi computerizzati
e mise in collegamento l’elaboratore con la fonte del segnale ritmico.
Sentì che la navetta mutava leggermente il proprio
assetto ed iniziava a dirigersi verso la fonte del segnale.
Tentò allora di comunicare col nuovo contatto, ma
nessuna delle frequenze risultò idonea.
Il pilota aveva perso la nozione del tempo e non
riuscì pertanto a stabilire quanto ne occorse all’avvicinamento, ma quando
questo avvenne il modulo accese i
razzi di compensazione per diminuire la velocità e prepararsi
all’atterraggio.
Vicino al punto di contatto il pilota tentò una
visualizzazione sugli schermi, e dopo vari tentativi apparve una sfera rilucente
grande circa cento volte il modulo stesso.
L’avvicinamento ora proseguiva come al rallentatore
e nel momento in cui i due corpi
stavano per toccarsi, il pilota si preparò all’impatto cercando di rivolgere
una preghiera ad una qualsiasi delle divinità terrestri, ma non vi riuscì,
tanto era confuso.
Un attimo prima dell’impatto, una sezione della
sfera sembrò dissolversi e la nave penetrò al suo interno adagiandosi
dolcemente su una piattaforma.
Il pilota appena riavutosi, andò nel vano merci
della navetta e da una cassa estrasse una bottiglia di cognac, l’aprì con un
attrezzo e ne assaporò svariate sorsate.
Poi iniziò a lavorare con l’ausilio dei sensori
del computer, prima analizzò l’atmosfera all’interno della sfera, essa era
completamente diversa da quella della Terra, ma il computer digitò che era
respirabile e sterile, poi la gravità, anch’essa
leggermente più forte, ma accettabile, la temperatura era di circa 30°,
la pressione un po’ più debole che sulla Terra, ma anch’essa ben
sostenibile dal fisico umano.
Il pilota si fece coraggio ed aprì il portello, saltò
sul pavimento che sembrava di materia plastica e si diresse verso l’unica
apertura che si vedeva in fondo a questo che sembrava, ed era, un hangar vuoto,
a parte la sua nave appena giunta.
La porta si stagliava rettangolare delle dimensioni
di una porta umana, non aveva ante, ma non si scorgeva cosa vi fosse oltre.
Il pilota con cautela infilò un dito attraverso il
portale e sentì come una leggera resistenza, poi il dito penetrò, allora
spinse la mano e poi tutto il braccio.
Li lasciò all’interno per qualche secondo, poi
ritirò il braccio, se lo guardò, non era successo proprio niente.
Infilò allora la testa nell’apertura, sentì una
leggera resistenza e nient’altro: vide la stanza, era grande quasi quanto
l’hangar e dava la sensazione di essere arredata, ma in modo estremamente
bizzarro.
Decise di entrare e solo allora ebbe la certezza di
trovarsi in un manufatto alieno.
Nelle pareti vi era tutta una serie di fori con nella
parte bassa dei rilievi che sporgevano in maniera complessa, poi c’erano come
dei cassetti senza maniglie, in un angolo una sedia con un buco circolare aveva
tutta l’aria di esser un gabinetto, ma era alta più di un metro, poi vi erano
dei parallelepipedi di varia altezza e di colori diversi dei quali non si
intuiva la funzione.
Sotto una semisfera
si trovava un altro parallelepipedo, questo orizzontale che pareva aver
le funzioni di letto, ma vi era impressa sopra una sagoma anatomica che aveva
molto poco di umano.
Su una striscia di parete vi erano dei geroglifici,
simili a quelli egiziani, ma diversi e poi dei disegni stilizzati che
ricordavano anch’essi divinità egizie con teste canine.
Il pilota si soffermò sui geroglifici e sulle figure
e le trasmise al computer, ma il computer non segnalò alcun riferimento noto,
la somiglianza era appunto solo una somiglianza.
Una parte molto piccola di una parete era poi
ricoperta da righe orizzontali multicolori, il pilota si accorse che le righe
lentamente mutavano la loro colorazione.
Rese visibili al computer le sequenze di righe
collegate e lo lasciò ad elaborare un significato, se significato ci fosse
stato.
C’era poi uno sgabello cilindrico molto alto ed il
pilota vi salì sopra mettendosi seduto, mentre si sedeva si materializzò una
consolle, più in alto, nella quale vi era l’incavo per due mani, più sottili
di quelle umane, ma lunghe il doppio e con tre dita per mano.
Si allungò per sfiorare l’incavo e si materializzò
un desktop anch’esso solcato da sottili righe colorate in movimento.
Decise di provare quello che sembrava un giaciglio,
risultò morbido, ma con alloggiamento corporeo, per un umano, tutto sbagliato.
Rimase sdraiato, ed iniziò a riflettere su quello
che gli stava succedendo, mentre sentiva che le sue membra stavano
indolenzendosi, il sonno lo colse all’improvviso e nel momento in cui si
addormentò le luci nella stanza si affievolirono.
Al risveglio, fu colto dalla fame, e tentò di
recarsi sul modulo per
rifocillarsi, ma la porta che dava nell’hangar era sparita, il pilota fu colto
dalla disperazione e non sapendo cosa fare si avvicinò ai fori che sporgevano
da una parete, vi infilò una mano dentro e la ritrasse bagnata.
Il liquido appiccicato alla sua mano aveva un buon
odore, ci avvicinò la lingua ed anche il sapore risultò gradevole, quasi
fruttato.
Ripeté l’esperienza con gli altri fori e da ognuno
di essi usciva un liquido più o meno viscoso che aveva l’apparenza di essere
commestibile.
Un assaggio qui, un assaggio la, la fame parve
svanire ed anche la sete.
Cominciò a curiosare attorno ai cassetti, ma non
trovò la maniera d’aprirli, alle fine stanco si arrese e tornò ad
arrampicarsi sullo sgabello della consolle, mise la sua mano nell’incavo, ma
questa volta non successe niente.
Dopo molti tentativi infruttuosi per aprirsi un
passaggio ove ricordava fosse era la porta per l’hangar, provò se quella
strana tazza fosse davvero un gabinetto, e lo era, ed era pure autopulente.
Qui c’è proprio di tutto per la sopravvivenza,
pensò, e si mise a cercare sia la doccia che l’acqua, ma per il momento non
ci fu niente da fare, così si risdraiò su quella specie di scomodo letto e
pensò che se le luci fossero più basse si sarebbe riposato meglio e questa
volta le luci si affievolirono prima che lui si addormentasse.
Al risveglio era meno indolenzito dell’esperienza
precedente e si recò ad una bocca per bere un po’ di liquido nutriente, cercò
di succhiarlo direttamente con le labbra, ma il condotto non gli permise di
farlo, allora infilò ancora una volta una mano e cominciò a leccare il liquido
rimasto appiccicato sulla mano stessa.
Fece poi attenzione alle barre colorate che si
trovavano in un angolo della parete e gli venne in mente che forse erano una
forma di scrittura, mentre i geroglifici che assomigliavano a quelli egiziani,
forse erano solo dei disegni rituali.
Si concentrò sui cassetti ermeticamente chiusi e
solo disegnati sulle pareti e mentalmente visualizzò una comune caramella.
Un cassetto lentamente si aprì ed era colmo di
multicolori sfere traslucide grandi circa il doppio delle nostre caramelle.
Ne prese una verde e se la mise in bocca, aveva un
sapore vicino alla cannella ma non molto gradevole, allora la sputò in quello
che aveva ormai scoperto essere il water e ne assaggiò una rosa, questa era
veramente ottima ed aveva un gusto
floreale.
Pensò intensamente di farsi una doccia e nel mezzo
alla stanza si accese un faro dal quale scaturiva a cono una strana nebbia
colorata.
Il pilota si spogliò, si mise sotto quella doccia di
vapore e particelle e sentì il suo corpo piacevolmente accarezzato da quei
raggi, a lungo restò sotto quell’alieno getto.
Quando decise di uscire i suoi vestiti erano
scomparsi ed un altro cassetto era aperto, dentro c’erano
degli accappatoi colorati da stringere in vita con una cinta dello stesso
tessuto, ma di diverso colore.
Indossò un accappatoio grigio con la cinta verde e
questo si modellò al suo corpo, poi salì sullo sgabello della consolle e
questa volta l’atto di salire fu agevole.
L’ologramma del desktop si materializzò
istantaneamente, le sue dita iniziarono a vibrare negli appositi alloggiamenti
mentre sullo schermo apparvero linee colorate che si trasformarono in un
linguaggio, del quale lui non riusciva ancora a comprendere il significato, ma
si accorse che iniziava ad intuirlo.
Riprese l’ispezione della sala e da un piccolo
cilindro cominciò ad uscire una nenia melodiosa, una nenia diversa da quelle
che aveva finora ascoltate, ma sicuramente molto piacevole e rilassante.
Il sonno lo colse di nuovo ed il giaciglio fu
accogliente, al risveglio le luci si intensificarono, una dolce musica arrivò
ai suoi orecchi e calmò la sete lappando direttamente
da un tubo mentre la sua faccia adesso aderiva perfettamente alle
sporgenze del tubo stesso.
Cubetti caldi e croccanti uscirono da un piccolo
cilindro, poi si recò al water ed infine fu il momento della doccia.
Prese un accappatoio pulito di colore diverso, con un
gesto fece riapparire la porta dell’hangar e dette un’occhiata alla
navetta sorridendo per la sua rozzezza.
Ad un suo cenno una parte della parete si fece
trasparente e poté ammirare le
costellazioni aliene che brillavano.
Poi salì alla consolle e questa volta con più
perizia fece scorrere le righe colorate che divennero listate complesse e
comprensibili.
Dopo ore di lavoro e di apprendimento stanco si stese
sul letto ed al risveglio materializzò uno specchio, ammirò il suo perfetto
corpo, alto, fusiforme con una meravigliosa testa di tipo canino e fascinosa,
poi con compiacimento si soffermò sulle sue due mani, affusolate, vibranti,
perfette, dorate, che terminavano con tre lunghe, bellissime ed armoniose dita.
Ora sapeva chi era, in quale parte dello spazio si
trovava, era pure in grado di guidare la sfera, sapeva dove andare e sapeva
anche che era atteso.