LA MORTE PIANIFICATA DI P.P.P.

 

                                                  Nella società contemporanea si dimentica

                                                  sempre il significato della morte.

                                                                                               (Y. Mishima)

Solo grazie alla morte la nostra vita ci serve ad esprimerci. (P.P.Pasolini)

 

 

Il mio rammarico è quello di non aver conosciuto di persona Pier Paolo. Ero a Bologna nel ‘75 ad uno dei tanti Congressi annuali che il Partito Radicale allora faceva, con mio grande disappunto per quelle date che sempre coincidevano col Salone di Comics a Lucca. Aspettavamo per l’indomani Pasolini, era lui l’ospite d’onore, quando alla tivù giunse la notizia della sua morte. Spesso durante gli incontri sulla poesia mi sono trovato a far confronti tra Pier Paolo Pasolini e Yukio Mishima. A parte le ovvie e diametralmente opposte concezioni politiche, numerose sono le assonanze che uniscono in stretta misura i due grandi poeti. L’omosessualità, la concezione della morte e la sua esaltazione, la lotta estrema contro l’omologazione imperante. Tutto questo mi portava a riscontrare analogie anche sulle loro morti violente e volute e sull’utilizzazione dei media per amplificare il loro trapasso rituale. E qui si levavano sempre proteste da parte di qualcuno trai presenti nel pubblico. “Pasolini non si è mica suicidato…” Rispondevo che la sua morte equivaleva ad un suicidio, perché era stata ricercata, voluta e da lui pianificata e anche scritta. Ma la platea restava sempre insoddisfatta. Oggi con le recenti nuove rivelazioni di Pelosi: “…Pasolini aveva tutto organizzato e altri tre attendevano l’arrivo mio e del poeta per completare il rito…” posso maggiormente chiarire ciò che intendevo quando parlavo del suicidio anche di Pasolini.

Sergio Citti ha definito l’evento: “…fu una grande messa in scena…”

Giuseppe Zigaina, pittore e scrittore, che ha collaborato con Pasolini in Medea, Teorema e Decameron, afferma: “…non solo Pier Paolo organizzò la propria morte fin nei minimi dettagli come progetto culturale, ma aveva pensato addirittura di farla filmare dai suoi stessi sicari: lo si evince dal ‘Poema per un verso di Shakespeare’

Infatti l’incontro di Pasolini con la Callas aveva suscitato in lui una grande tenerezza e questa tenerezza lo convinse a spostare al 2 novembre ’75 il proprio appuntamento con la morte dato che in uno scritto del ’62 aveva progettato di farsi uccidere nel ’69.

Scelse quella nuova data per la sua morte perché era una domenica e solo ogni sei anni la domenica coincide con la commemorazione dei defunti. Pasolini voleva morire di domenica, perché in una domenica del ’45 era morto suo fratello Guido, di due anni più giovane di lui. Guido fu ucciso dai partigiani e di domenica o in un giorno festivo muoiono quasi tutti i protagonisti delle sue opere.

Pasolini inoltre voleva sopravvivere a se stesso, come Dante, l’oblio l’atterriva. Scrisse:”…non appena uno è morto si attua, della sua vita appena conclusa, una rapida sintesi. Cadono nel nulla miliardi di atti, espressioni, suoni, voci, parole e, ne sopravvivono alcune. Un numero enorme di frasi che egli ha detto in tutte le mattine, in tutti i mezzodì, le sere e le notti della sua vita, cadono in un baratro infinito e silente.”

Scelse d’uccidersi ad Ostia, ove aveva girato Medea, da lui definito un saggio sugli albori dell’agricoltura. Anche “Medea” era un messaggio di morte; occuparsi degli albori dell’agricoltura significa necessariamente occuparsi anche dei sacrifici umani attuati per propiziare l’abbondanza dei raccolti. Pasolini col proprio sacrificio voleva procurarsi raccolti culturali come poeta. Ostia infatti, in latino hostia, significa “vittima sacrificale”.

Pino Pelosi, detto Rana , è caricato in auto a Roma in piazza dei Cinquecento da Pasolini, cenano al ristorante Pomodoro; è mezzanotte e tre quarti quando escono dal locale e siamo già nel giorno dei morti. Si appartano a Ostia all’interno d’un campetto di calcio. È la simbologia religiosa del recinto sacro. Pasolini vuole che il suo casuale compagno possa difendersi davanti ai giudici nel migliore dei modi, garantendosi così una mite condanna. Disse Pelosi: “…il regista m’ha assalito, ho perso la testa, gli ho dato una bastonata, sono poi salito in auto e scappato via. Scappando l’ho investito senza volerlo…”

La sentenza per l’omicidio del poeta ha lasciato margini di dubbio su l’eventuale presenza d’altri sicari, forse almeno due che potrebbero esser stati pagati da Pasolini per terminare l’opera iniziata dal Pelosi.

Pasolini muore per schiacciamento toracico provocato dalle ruote della sua Giulietta. Auto nata sotto una cattiva stella, ebbe a scrivere il poeta. La Giulietta gli passò due volte sopra il corpo. Il rito sacrificale per propiziare buoni raccolti presso molte civiltà paleo-contadine, che vanno dal Medio Oriente al Perù, consisteva nello schiacciamento del torace della vittima che era ricoperta da spighe di grano. Schiacciamento a imitazione rituale di ciò che avrebbero poi fatto le ruote di pietra del mulino o il mortaio africano coi chicchi di grano.

Pasolini in “Comunicati all’ANSA”, nove poesie nelle quali in “Ninetto” descrive le ragioni e le fasi della sua terribile fine e riassume la sequenza del ‘suicidio per delega’  e in “Una disperata vitalità” annota.”…mi decomporrò…sulle rive del mare, in cui ricomincia la vita…”

Ostia, che sta per vittima sacrificale,  è sul mare e la vita che ricomincia è l’aldilà.

Zigaina  afferma che per interpretare correttamente “Temi e treni” sarebbe bastato consultare lo Zingarelli: alla voce ‘tema’ si trova l’accezione ‘esempio’, alla voce ‘treno’ l’accezione ‘canto funebre’. Pasolini intendeva dire che è così che può dare l’esempio, con la sua morte. Pasolini ha infatti dedicato l’intera sua vita a parlare del gesto come esempio. “O esprimersi e morire o restare inespressi e immortali”.

Definendosi ‘uccelletto friulano’, dice ‘te ne andrai in un verso’; morirà cioè facendo poesia, perché vedeva la morte come un faro che avrebbe illuminato retroattivamente la sua opera e la sua vita. Dunque ancora analogia col grande Mishima che in “Morte di mezza estate” descrive il suo massimo rituale sacrificio