-Vittorio Baccelli - i racconti - Mosaico -

- fa parte della raccolta "mosaico" - cool su "scritturafresca" - 

QUADRO TERAPEUTICO

(IL CANCELLO DI FIDEL)

 

 

Mi chiamo Fidel, ma questo non è il mio vero nome però tutti ormai mi chiamano così forse per la barba che porto o per i sigari o per i sandali che indosso sempre. Un giorno me ne stavo qui appoggiato al muro della separazione accanto al cancello come ora, e riflettevo senza far niente, Martin mi vede e fa: "Ehilà Fidel che fai? Pensi alla rivoluzione?" e da quel momento sono divenuto Fidel per tutti. Martin è bravo, è il mio miglior amico, forse è l’unico amico, eravamo poco più che ragazzi entrambi la prima volta che c’incrociammo qua dentro sotto gli archi del chiostro grande, e da allora quanti ospiti, clarisse e bonzi abbiamo visto arrivare, andar via e qualche volta morire.

Martin mi viene a trovare ogni mattina nella mia cella e s’informa se ho dormito bene. Io gli rispondo sempre di sì e chiedo a lui come ha passato la notte e anche lui mi risponde sempre con un "Bene, bene". Questo dialogo, sia per me che per lui è come un atto scaramantico, una rassicurazione che a vicenda cerchiamo, vogliamo la sicurezza che la notte sia passata bene per entrambi, così il giorno che inizia sarà buono e uguale a sempre, che il muro che ci separa dall’esterno non crolli mai affinché la realtà che viene da fuori non ci raggiunga.

Già la realtà all’esterno, quante cose ho sentito dire, quanto sangue è stato versato nei pogrom antislamici in tutto il mondo, poi c’è stata un’occupazione aliena svanita nel nulla e un ritorno alla normalità senza più musulmani e senza più alieni. Cose grosse sono accadute, ma noi due ci siamo isolati qua dentro ove solo le notizie, e non tutte, sono penetrate entro il muro della separazione che ci ha protetto.

Nella mia cella come in quelle degli altri ospiti vi è un quadro terapeutico che ogni giorno cambia la scritta e sulla quale noi siamo invitati a meditare aiutati anche dalle figure geometriche colorate che sono in movimento sotto la scritta. Nel mio quadro terapeutico ieri c’era la frase "Le ho parlato seriamente, le ho detto che stavo scherzando", oggi invece c’è scritto " Gli Adolf Hitler e i Pol Pot del futuro non salteranno fuori dal deserto, usciranno tranquillamente dai centri commerciali". Io non medito mai sulle scritte terapeutiche, le leggo e basta poi le dimentico, oggi infatti ricordo solo queste due.

Ma questa notte non me la sto passando proprio bene, come mille altre notti d'altronde, penso a questa vita separata da tutti e a tratti sogno di masturbarmi nascosto nell’angolo buio d’uno sgabuzzino e non voglio che tutto questo duri per l’intera mia vita. Penso alla clarissa che ieri ho visto, affascinante come l’unghia rientrata d’un gatto, il suo viso profumato al disinfettante, lei fa ora parte d’un quadro ma all’improvviso mi coglie la paura dei ragni. Qui nello sgabuzzino ci sono, li ho visti anche altre volte ed ora che il silenzio mi procura strani rumori alle orecchie, dovrei pensare ad altro, tornare alla clarissa per esempio, ma non ci riesco. Quelle zampette gironzolanti m’intrigano, la loro contemplazione m’inchioda la mente ipnotizzandomi. I ragni escono dalle fessure delle pareti e iniziano il loro lavoro, mi trovo a guardarli mentre tessono e poi scompaiono mutandosi in trasparenze in attesa. Vorrei allora aiutarli a riempire le loro trappole penzolanti, andar io a caccia di mosche e di zanzare, prenderle a volo e stringerle nel pugno. Le avvicino poi, loro mie prigioniere, alle geometrie sottili, trasparenti e vibranti e le lascio andare giù di botto in quelle tele che hanno la stessa trama del kevlar.

Stamani Martin non si vede mentre io sto qui a pensare e a sognare confondendomi, decido infine d’uscire a cercarlo, sono sulla porta e per riflesso leggo la scritta terapeutica giornaliera "Ho trovato la donna della mia vita, bene adesso mi basta di trovare la vita e sono a posto". Attraverso sale e cucine, cortili e lavanderie, ma di Martin nessuna traccia. Giro per tutto l’edificio attraverso i chiostri e le chiese, guardo nelle biblioteche… Sono ora in uno dei piani più alti ove vi sono degli stanzoni con dei fili metallici tesi ove le clarisse stendono i lenzuoli lavati ad asciugare, mi affaccio tra gli archi e guardo il cancello oltre il giardino d’ingresso e lo vedo, fuori dal muro della separazione. Lo chiamo a voce alta e lui mi risponde agitando le braccia e grida "Ti aspetto! Ti aspetto!"poi mi volta le spalle e s’avvia lungo il sentiero che si dipana dal cancello e va verso il mondo esterno.

Lo chiamo nuovamente, ma lui non è più visibile, allora piango, urlo il suo nome…

Rientro infine nella mia cella, c’è una nuova scritta terapeutica "E’ consuetudine del destino dare strani appuntamenti", riprendo a fantasticare sulla clarissa, sdraiato sul futon, la spoglio, è nuda davanti a me, poi mi riprendo e, dove eravamo rimasti? Ah,i ragni: talvolta sbriciolo le loro trappole, i loro tessuti improbabili, libero le prede, distruggo il loro lavoro. Dopo aver vandalizzato anche i fili dondolanti sgelo i pensieri che sono inutili anche ora che il mattino è inoltrato. Di giorno la schiera degli ospiti ondeggia, scorre da un’ala all’altra dell’edificio, s’incontra coi bonzi e le clarisse e a ore stabilite s’intrecciano i visitatori a tutti loro. Ma è la notte che talvolta riesco a sfuggire anche dai miei pensieri, scavalco l’ultima finestra del corridoio ove sorge la mia cella e mi ritrovo in un giardino vietato, mi sento come una libellula a zonzo sopra le acque scure della notte, scarcerando l’immaginazione la libero come una perla d’una ostrica di cristallo. La mia immaginazione è libera, ma io non lo sono carnevincolato uncinato da pensieri che guastano con impeto anche il mio corpo. Passo il tempo in un vagare senza senso nell’habitat che da sempre mi protegge e mi ospita, straniero tra queste mura abitate da stranieri. Stamani mi ero alzato all’alba, ma adesso la notte s’avvicina,dimentico i ragni, gli ospiti, le clarisse, la mia clarissa denudata, i visitatori, i maomettani e gli alieni,li allontano tutti scotendo la testa, scendo nelle cucine e mi preparo un caffè, passo poi in fureria e scelgo con cura dei vestiti nuovi: scarpe da tennis, calzini, boxer, jeans, T-shirt e giacca a vento. Così vestito a nuovo attraverso tutto l’edificio, poi il giardino d’ingresso e giungo davanti al cancello. Il gran cancello di ferro battuto, gli do una spinta e questo inaspettatamente s’apre e con gran fracasso crolla a terra. Si alza la polvere attorno al gran cancello abbattuto, anche una parte del muro di separazione è crollata. "Ma qui è tutto marcio" sto pensando mentre scavalco la ferraglia e m’avvio a passo spedito verso il sentiero che non so dove porti, ma va verso il mondo esterno. Dietro a una curva tra gli alberi scorgo Martin, è seduto sopra un tronco caduto e sono certo che mi sta aspettando. Al lato del sentiero c’è un cartello simile ai quadri terapeutici delle nostre celle, ma è molto più grande e infisso nel terreno con due assi metalliche, c’è scritto "Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce".

Martin intanto è accanto a me, ci abbracciamo e stiamo piangendo.

 

(Vittorio Baccelli)