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vittorio
baccelli – racconti –
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questo
racconto vuole essere un omaggio al popolo ed alla letteratura d’Israele –
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pubblicato
per la prima volta su “il convivio” –
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selezionato
per l’antologia “luccAutori – scrittori nella rete” edita da newton &
compton-
SDOT OR
Salgo sulla mia vecchissima auto e devo ricordarmi di rientrare prima che faccia buio perché i fanali hanno smesso di funzionare una settimana fa. Dovevo andare dall’elettrauto, ma poi me lo sono scordato, non è che adoperi molto l’auto, preferisco camminare a piedi.
Mi sembra di vivere in un sogno, anzi in un incubo, tutto è cominciato stamani con una telefonata. Era tarda mattinata, ma me ne stavo sdraiato sul letto con le finestre chiuse per lasciare fuori il caldo ed il sole, non avevo lezioni e me la stavo prendendo comoda, avevo tra l’altro qualche linea di febbre. Il telefono squilla a lungo, dall’altro capo c’è qualcuno che dovrei conoscere, ma non ricordo il suo nome, mi dice che è morta, un attentato, lo stanno dicendo anche alla tivù. Non riesco a levarmi il torpore da dosso, ringrazio e bruscamente butto giù il telefono prima ancora d’aver messo a fuoco la notizia.
Mi getto nuovamente sul letto, poi il volto di lei brilla nella memoria: un attentato? Non è possibile! Mi alzo velocemente, la mente ora non è più annebbiata dal sonno, ma un dolore profondo mi avvolge, la febbre mi fa sentire la testa, cosa mi è stato detto al telefono? Mi sono sognato tutto?
Rimango nudo in piedi davanti alla finestra chiusa, guardo il ricevitore come fosse un nemico. Poi schizzo verso l’angolo più ignorato della casa, dove c’è un vecchio televisore in bianco e nero che non accendo quasi mai. Giro la manopola e lentamente appaiono alcune immagini pubblicitarie, cambio canale finchè trovo un notiziario: sta parlando di un attentato in un mercatino di Tel Aviv, il solito disperato imbottito di tritolo, tre morti. Appaiono in quel bianco e nero di sapore antico le immagini dell’angolo di mercato devastato, alcuni intervistati raccontano ciò che hanno visto, conversano anche con un ferito all’ospedale, poi le foto dei tre morti. Una foto è la sua, resto paralizzato, i miei occhi sono secchi come l’aria attorno, sembra che mi brucino, mi dico non è possibile, è solo un sogno, e poi perché?
Con l’auto giro verso le colline, l’asfalto della strada è zeppo di buche e la mia vecchia auto sobbalza cigolando, gli ammortizzatori scarichi si ribellano alle sollecitazioni, mi fermo in uno spiazzo aperto, c’è un’altra auto arrugginita, forse abbandonata da tempo. In lontananza un rumoroso trattore munito di pala aggredisce una collinetta ghiaiosa. Poso la testa sul volante e ritorno al tardo mattino, davanti alla tivù, mentre lancio un urlo ed il suo volto resta impresso nella memoria. Mi copro il capo, m’infilo pigiama e pantofole. Con un coltello faccio un lungo taglio al pigiama all’altezza del cuore. Esco, il televisore è rimasto acceso, la porta è aperta, cammino, cammino: qui alla periferia di Gerusalemme tra rovi ostinati che crescono nella polvere e tagliano le mie gambe insensibili. Vago in pigiama coi piedi sanguinanti, Gerusalemme è l’unica città al mondo ove puoi passeggiare in pigiama e pantofole senza destare curiosità. Giro tutto attorno al mio quartiere, più volte, perdo il conto delle ore, il pomeriggio è ora avanzato, il dolore non si placa, ed allora ritorno davanti alla mia abitazione salgo sull’auto e giro la chiavetta, mentre un bambino mi osserva con l’aria interrogativa. Giungo prima all’università e giro attorno ai padiglioni, qualche studente carico di libri mi riconosce e fa un cenno di saluto.
Ora sono qui in questo desolato parcheggio tra colli e le vallate che arrivano fino al Sinai. Ulivi, pietre, in lontananza il rumore affievolito d’un trattore. Nella nottata è caduto uno spruzzo di pioggia e dove mi trovo ci sono delle pozzanghere, ma la mota è quasi secca. Ricordo, lo scroscio d’acqua è durato solo un attimo ed il terreno sta già riprendendo quello che brama. A destra un muro sbrecciato, una casa in costruzione, divago: Gerusalemme è sempre distrutta, malgrado si costruisca in continuazione, il ricordo della distruzione permane. Il caldo ha preso pieno possesso dell’aria ed il vento, ora salmastro, screpola le labbra.
Gerusalemme, la sua periferia sempre in allerta, tutto è confine, la zona di frontiera passa ovunque, anche nelle menti. Lei non c’è più, vivemmo anni spensierati a Sdot Or alle prese con viti ed ulivi, amici, più che amici, io di destra, d’una destra totalmente laica, lei influenzata dalla nuova sinistra americana. Vestiva di solito in jeans, talvolta cortissimi, portava scarpe NIKE sempre coperte di terra, fumava Marlboro. La prendevo sempre in giro, “la tua roba americana, i levi’s le nike la fanno gli arabi in Marocco e le Marlboro le fanno a Napoli”. “Gli arabi a Napoli?” Diceva lei e poi ridevamo entrambi. Camice, t-shirt, portava tutta roba americana e la trovava in certi mercatini che solo lei conosceva e dove avevano anche le Marlboro a prezzi stracciati.
In un mercato a Tel Aviv: era andata in gita e lei aveva subito cercato il mercato….
Il vento robusto del mare si sta scontrando con quello del deserto, carico di sabbia e di promesse mai mantenute. La mia poesia si è inaridita in questa città, lasciai Sdot Or portandomi dietro i suoi ricordi, quando bambino giocavo coi trattori di legno e le camionette, giochi rozzi da bambino di kibbutz. Ero innamorato di lei, ma non seppi rendermene pienamente conto, stavamo sempre insieme e prima di partire, è storia di tutti i giorni che qualcuno lascia il suo kibbutz, per giungere a Gerusalemme e studiare, ci amammo per un giorno intero. Ci siamo poi sentiti tre o quattro volte al telefono, ci siamo scambiati qualche cartolina d’auguri. Intanto intorno a noi tutto cambiava in fretta pur restando immutabile.
Un giorno ebbi voglia di rivederla e salii sull’auto, questa stessa auto, che allora era un po’ meno arrugginita d’adesso. Dopo un lungo viaggio giunsi infine a Sdot Or, ero accaldato e ricoperto della fine polvere che entra ovunque quando viaggi in questo angolo del mondo. Mi fermai allora accanto al refettorio comune e cominciai a pettinarmi, a ripulirmi alla meglio con salviette umidificate, e mentre stavo facendo toilette la vidi passare, aveva un’enorme pancia, era incinta. Avevo saputo del suo matrimonio, ma non sapevo che fosse rimasta incinta, nessuno me lo aveva detto. Allora mi feci piccolo in auto e riuscii a non farmi vedere. Poi ripartii per Gerusalemme.
Arriva sferragliando un grosso camion che fa manovra in retromarcia lascia poi sganciato il suo rimorchio scoperto a fianco della mia auto.
Osservo le manovre, il camion riparte, vicino a me, sul terreno formiche gerosolimitane senza fretta camminano in fila.
Sono immobile e la notte arriva con le sue costellazioni infinite, gli occhi mi si chiudono e mi ritrovo a due passi dal confine con la Siria, vicino a Sdot Or, sono arrivato con una vecchia moto militare e la sto aspettando. Ma l’attesa è al termine, ecco che arriva a passo veloce con le NIKE sporche di terra, coi suoi capelli neri che il vento fa danzare. I suoi occhi penetranti, minipantaloni e t-shirt avana, un cappello di rafia che resta miracolosamente in bilico sulla sua chioma. Le sue labbra carnose, sensuali che si avvicinano al mio volto, la bacio sulla guancia: un bacio che sa di sale.
Siamo tutt’uno con la nostra terra mentre il ricordo mi avvolge in questa triste notte d’autunno alla periferia di Gerusalemme.
Vittorio Baccelli