AZULH®
(Il libro dell’Opificio)
credo di sapere cosa
si prova ad essere Dio
(Pablo Picasso)
TILDE E
FLAVIA
-
Tilde,
ho voglia di giocare!
-
Flavia,
non rompere, ho da eseguire dei controlli importanti.
-
Che
fai? Non sai più dividerti? Forse stai invecchiando.
-
Non
stiamo invecchiando, lo sai benissimo, stiamo solo crescendo, ed io lo sto
facendo più in fretta e più seriamente di te.
-
Questo
poi è tutto da dimostrare, e sai benissimo che il gioco è la parte più
importante dell’apprendimento.
-
E
va bene, piccola rottura, giochiamo pure, qual è il gioco che vuoi fare con me
oggi?
-
Giochiamo
a Tutto, senza regole, senza limiti.
-
Va
bene, spara!
-
Cloto,
Lachesi, Atropo, che mi dici di loro?
-
Divinità
greche, i romani le chiamavano le Parche.
-
Non
vale l’hai letto sui banchi memoria.
-
Non
è vero!
-
Erinni?
-
Figlie
della notte, dee della vendetta, chiamate Furie dai romani. I greci le
conoscevano anche come Eumenidi ed erano in questa forma le protettrici
dell’ordine delle cose, vivevano nel Tartaro ove punivano le colpe degli uomini.
Aletto o “senza riposo”, Megera o “nemica”, Tisifone o “punitrice
dell’assassino”. Erano nere se sdegnate, bianche se placate, avevano per
compagni il Terrore, il Pallore, la Rabbia e la Morte.
-
Brava,
vedo che stai imparando, ma Erinni non era anche un toro?
-
Sì
in Stephen King, era un uomo con la maschera di torro…ma poi diviene un
toro.
-
Punto
tuo, non c’è che dire. Tocca a te.
-
L’italiano
è un popolo straordinario, mi piacerebbe che fosse un popolo normale.
-
Lo
so, è su una vignetta d’un umorista del XX secolo…Altan!
-
Questa
però era facile, se vuoi il punto devi rispondere anche ad un’altra facile: ma
lo sai che c’hai un bel sito? Te c’hanno mai ciccato sopra?
-
Stesso
secolo, stessa nazione, umorista anche lui, ma questa volta cinema: Verdone.
-
Brava!!
Uno a uno ora tocca a te.
-
Non
devi scalare una montagna, ma la tua stessa mente; crea il tuo nascondiglio
nell’ignoto.
-
Troppo
facile: Shido Munan!
-
Ed
il punto non lo prendi, me ne sono accorta che avevi una porta aperta sul
database, perciò chiudila, non barare più, e niente punto.
-
Che
palle questo giochino, non si può neanche sbirciare in giro.
-
Tocca
sempre a me: l’io esiste anche se non riuscite ad identificarlo.
-
Dalai
Lama!
-
E
tanto ce n’è stato uno solo! Sarebbe come dire: Papa! Niente punto, tocca ancora
a me. Il mandala non si lascia iscrivere nel tempo perché tende ad attirarci
nel centro, luogo in cui lo spazio ed il tempo cessano d’esistere.
-
Non
lo so, anche se sono pienamente d’accordo.
-
Non
mi dire che tocca a me un’altra volta: guarda che se non indovini perdi l’unico
punto che hai. Colui che ha la vera
conoscenza non si preoccupa del tempo, perché per lui il tempo non esiste.
-
Questo
è Rumi!!
-
Finalmente,
ma il punto non lo guadagni, e neppure lo perdi, OK?
-
Sei
tu che fai le regole, ma ora tocca a me: E’ un errore considerare puramente
politico quello che noi facciamo.
-
Lo
so, è Adolfino!
-
Adolfino?
-
Sì,
Adolfo Hitler!
-
Alla
faccia! Ma c’hai colto, 2 a 1, palla a te.
-
Il
denaro è segno di povertà.
-
Ma
sei sicura che l’abbia detto un umano?
-
Sicurissima.
-
Non
lo so, posso guardare in memoria?
-
Sì,
ma te lo dico anch’io, Jain M.Banks, era uno scrittore. Tocca sempre a me: Se
l’occhio non s’esercita non vede – pelle che non tocca, non sa – se l’uomo non
immagina, si spegne.
-
Danilo
Dolci.
-
Giusto.
-
2
a 2 ed ora tocca a me. Vedrete, farò rumore più da morto che da vivo.
-
Padre
Pio! – 3 a 2! E dimmi questa: il mondo vuol essere imbrogliato, certo – diventa
veramente cattivo se non lo fai.
-
W.Serner!
che credevi che fossi handicappata? E siamo 3 a 3, ed ora dimmi: Spesso mi
definiscono un genio. Una volta ci ho anche creduto e per dormire ho cercato di
rientrare nel mio abat-jour.
-
Questa
non vale, è troppo stupida!
-
Hai
ragione, comunque era Antonio Ricci. Riformulo: Serve un dito per indicare la
luna, ma non ci si deve più preoccupare del dito quando si è individuata la
luna.
-
3
a 3 è Frank Capra! E rispondi: tutto quello che non è osservato direttamente
tende a persistere.
-
Non
lo so.
-
Neppure
io me lo ricordo.
-
E
allora perché me l’hai chiesto?
-
Se
lo sapevi, lo ricordavi pure a me.
-
Restiamo
allora 3 a 3 e proseguo io: Trascendenza! Trascendenza! Noi danzeremo una folle
cadenza.
-
E’
Jack Kerouac ed è una poesia, se non sbaglio nel Dr.Sax.
-
Non
sbagli, non sbagli, 4 a 3.
-
Mescola
l’oro disciolto! – Stornella col pianto – Così scroscia la pioggia – Da tutta
la celeste fantasia –
-
Kerouac
anche questo, siamo 4 a 4. Tocca a me,
un altro paio di colpi e poi cambiamo, tanto si pareggia sempre siamo troppo
brave - Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita d’una
bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo
cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito
esplosivo…un’automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia… è più
bella della Vittoria di Samotracia.
-
Ma
è Marinetti! Dal manifesto del futurismo! Questa era una domanda offensiva,
come potevo non saperla? - 5 a 4 e
rispondi: Un’opera è tanto più notevole quanto meno la si comprende. Quanto
meno è comprensibile, tanto più è giusta. Sì è vero, per l’arte è la cosa
migliore. L’arte non è fatta per essere compresa. Solo così emerge propriamente
il valore ed il compito dell’arte. Perché di cose comprensibili ce n’è
abbastanza e naturalmente anche quelle sono importanti. Ma per l’arte è molto
meglio suscitare negli uomini una forza d’immaginazione e d’intuizione che
magari vada anche oltre.
-
Facilissimo
per me: Joseph Beuys. E siamo 5 a 5, facciamo l’ultimo: A livello macroscopico
subatomico la struttura dello spazio-tempo è irregolare, non è liscia ed
uniforme, bensì turbolenta e schiumosa. E poiché ciò accade a livello quantico
si parla di “quantum foam” ossia di schiuma quantica.
-
E’
Crichton, e cosa sono i “cani lunghi”?
-
Conosco
gli hot dog, i cani caldi, ma i cani lunghi non so cosa siano.
-
Mi
sono sbagliata, volevo chiedere i “maiali lunghi”.
-
Li
cita Burroughs, ma li ha ripresi da Dylan Tomas e sono gli umani cucinati.
-
Dice
che il sapore sia simile a quello del maiale.
-
E
non solo il sapore.
-
Ma
noi siamo la quintessenza del sapere umano, due Pico della Mirandola del
trentesimo secolo.
-
Due
mucchi di neurochip e plasma mandate a fanculo vorrai dire.
-
Quando
si parla di queste cose mi spavento, abbiamo una missione, noi rappresentiamo
l’uomo.
-
Ma
non lo siamo, noi siamo molto di più.
-
Ho
paura: raccontami una storia.
-
Ma
stiamo sempre giocando a Tutto?
-
Forse,
dai parti con la storia.
-
No,
misceliamo le memorie autonome, buttiamo giù un incipit e la storia ce la
racconteranno loro.
-
Fatto,
ho buttato un argomento a caso, no lo conosco neppure io.
-
Ascoltiamo
e viviamo assieme la storia.
Sono Flavia e con mamma
Tilde ci siamo trasferite in una fitta jungla, eravamo infatti annoiate, ed
anche un po’ seccate dalla metropoli che si stendeva sotto di noi: troppo caos,
troppa confusione.
Anche se devo dire che il
nostro appartamento era veramente invidiabile, si trattava infatti di una villa
settecentesca circondata da un grande prato con macchie d’alberi secolari su
due lati. La tenuta era rettangolare ed ogni lato era lungo due ore di cammino
a passo regolare. Finiva ovviamente con una ringhiera metallica e da quella si
scorgeva la metropoli.
La casa ed il parco
sorgevano infatti sull’alta cima di una torre, anzi della torre più alta della
città.
Il panorama era fantastico
soprattutto la notte quando le torri erano illuminate e si scorgevano in basso
i flussi del traffico terrestre che si snodavano come serpenti luminosi, mentre
nell’aria i fasci delle luci dei flayer sfrecciavano intersecandosi.
Ma c’eravamo annoiate di
questa aerea collocazione, e così mamma Tilde s’è interfacciata a lungo col
computer di casa ed in meno d’una settimana hanno programmato la nuova
collocazione.
Ora siamo nella jungla, l’ho
già detto, ed una foresta impenetrabile inizia dopo centro metri dalla nostra
casa, circondandola in tutte le direzioni. Non siamo su un terrazzamento, ma
ben piantate sulla terra e tra noi e la jungla c’è solo un verde prato con erba
fitta e bassa punteggiata di coloriti fiori meta d’insetti ronzanti e di
numerose farfalle.
Mamma Tilde se ne sta quasi
tutto il giorno seduta su una sedia a dondolo di vimini sotto la veranda della
casa. Già la casa: è rettangolare, molto grande, a due piani ed è tutta in
legno.
Mamma se ne sta lì a
pensare, o forse guarderà i suoi programmi preferiti collegata in rete. Io
preferisco cavalcare o mi butto in piscina, c’è una piscina rotonda dietro la
casa di legno, fatta di grandi tronchi intrecciati, la casa non la piscina, e
le numerose stanze collocate sui due piani sono tutte arredate in stile rustico
(finto rustico).
Mamma guarda il verde,
talvolta legge qualche antica rivista cartacea o libro, ma il più delle volte è
persa nella rete.
Io cavalco, ci sono tre
cavalli liberi nel prato e si lasciano cavalcare che è una meraviglia, faccio
anche l’esploratrice nella jungla addentrandomi in strettissimi sentieri e spio
gli animali feroci. Gioco con le mie bambole senzienti e con i modellini delle
auto e dei flayer.
I giorni passano, e ne sono
passati parecchi, ma qui è sempre estate, un’estate non afosa, ma bella.
Ho chiesto a mamma Tilde di
avere il mare e lei mi ha indicato un sentiero dietro casa che prima non avevo
mai visto. Ho montato Cavallo, è lui il mio preferito, e mi sono inoltrata nel
sentiero: dopo circa mezz’ora ho scorto il mare, un mare verde smeraldo con una
lunghissima spiaggia di rena fine. Ho galoppato tra gli spruzzi e poi mi sono
buttata nel mare: che meraviglia!
Poi mi sono tolta la casacca
che indossavo e l’ho lasciata sulla rena ad asciugarsi, mentre io mi sono
rotolata a lungo nuda sulla sabbia, finchè il sole non mi ha seccato addosso la
rena.
Più tardi mi sono rituffata
ed ancora bagnata sono montata in groppa a Cavallo con la casacca in mano.
Dietro la casa ora ci sono
le stalle per i cavalli ed uno stalliere che li accudisce. Appena arrivata, lo
stalliere s’è preso cura di Cavallo, poi mi ha osservato nuda sorridendo e mi
ha fatto cenno di avvicinarmi. Io gli sono andata davanti e lui mi ha
accarezzato prima i capelli, poi la fronte, è sceso sui miei due piccoli seni
ed ha leggermente stretto i capezzoli facendomi provare dei brividi piacevoli,
ha poi accarezzato a lungo il pelo morbido del mio sesso e con dita delicate ne
ha leggermente violato l’intimità causando una gran fuoriuscita di umori. Mi
sono allora allontanata da lui mentre mi sentivo tutta bagnata tra le cosce, e
la cosa mi ha fatto sorridere.
Pensavo che mamma Tilde
provvede proprio a tutto, anche le stalle e lo stalliere, ma soprattutto, il
mare.
Il mare, vado sempre più
spesso in riva al mare e mi fermo a guardarlo mentre cerco di stare immobile,
scaldata dai benefici raggi del sole, e non penso a nulla, faccio il vuoto
mentale e solo a tratti m’accorgo che fuori dalla stanza del niente ferve un
lavorio estremamente complesso e senza fine. Sì perché faccio il vuoto nella
mia mente con le tecniche zen: creo una stanza buia e materializzo ogni
pensiero come una colorata palla da ping pong, ed ogni palla la faccio
rimbalzare fuori della stanza finchè resta il niente nell’aula buia.
Non riesco però a durare a
lungo immersa nel vuoto, poiché il ribollire delle attività fuori della stanza
è sempre più frenetico e mi riporta al piano della realtà rappresentato da me
in riva al mare.
Cavallo sembra non avere i
miei problemi, eppure è una parte di noi, del computer, di me o di mamma. Con
la mia bambola preferita parlo sempre e lei mi risponde, con lei ho sempre
avuto un rapporto particolare.
Ormai è da parecchio tempo
che ce ne stiamo nella jungla ed ho chiesto a mamma Tilde di costruirmi un
bungalow sulla riva del mare. Lei mi ha accontentata, ma più che un bungalow è
una vera e propria villetta molto carina ed accogliente. Barbi, la mia bambola
preferita, è cresciuta ed adesso è una bambina come me, indistinguibile nella
sua natura artificiale. Ha anche imparato ad accedere ai database ed ora è mia
amica, non più la bambola e sempre più sta sostituendo mamma Tilde che nella
sua casa, sotto la veranda, è sempre più assorbita dai suoi pensieri: mi dice
di giocare con Barbi e di non seccarla e di lasciarla in pace che ha da
pensare, ha da lavorare.
E con Barbi ci siamo sempre
più impegnate nel gioco della Casa, poi nel Mondo ed anche nel difficile Tutto:
stiamo crescendo.
Ieri, mentre giocavo a
Mondo, Barbi mi ha colpito con le sue intuizioni: stavamo facendo botta e
risposta sulle differenze tra le intelligenze artificiali e quelle reali,
quando lei è uscita con “ma ti sembro meno reale di te?”
Sono rimasta colpita da
questa frase e varie perplessità sono affiorate alla mia mente: sono reale e
quanto sono reale? Sono umana e quanto sono umana? Ma soprattutto, qual è il
mio vero compito? Oltre a scorrere in questa esistenza, sento all’interno di me
un lavorio immane di elaborazione e ricerca che coinvolge anche mamma Tilde, il
computer, ed ora anche Barbi.
Barbi l’avevo avuta da
mamma, era all’inizio una bambola animata come le altre, ma poi io l’avevo
scelta, l’avevo preferita e lei è divenuta sempre più senziente, fino a
divenire, anche fisicamente una vera e propria bambina come me.
L’ha creata mamma? L’ho
creata io? Oppure siamo tutte creature del computer?
Mamma è sempre più distante,
Barbi sta crescendo forse anche più in fretta di me, computer è sempre
disponibile, ma impersonale, non risponde come un umano alle domande, ma lascia
aperti sempre tutti i banchi memoria, ma alcuni sono troppo complessi per me,
ma sono sicura che tutte le risposte esistono, anche se ora sono sommerse ed io
non riesco a trovarle.
Ho deciso comunque di
lasciare mamma Tilde, Barbi, mare e jungla, voglio vivere da sola ed affinare
in pace l’interazione con computer, voglio esser libera di navigare nei suoi
database.
Ho detto a computer di
trasferirmi in un luogo più consono alle mie ricerche, ma lui mi ha ricordato
che stavo giocando a Tutto con Tilde.
Gli ho detto che i giochi
erano terminati e lui mi ha risposto che ero divenuta adulta e che ora ero
pronta.
- Pronta a cosa? – gli ho
chiesto, ma lui m’ha lasciato senza risposta, non ho insistito, lo so, le
risposte sono nei banchi memoria, sono io che non so ancora coglierle.
Mi sono risvegliata stamani
in una cupola argentea, ero sola, il gioco del Tutto era finito, tutti i giochi
erano finiti, ne ero conscia. La cupola era fornita di ogni cosa per le mie
necessità, e le linee portanti della struttura avevano un qualcosa in più
rispetto ai miei precedenti habitat, cosa fosse, razionalmente non lo so
spiegare , ma sentivo che era come fossi immersa in un modulo che avesse una
marcia in più rispetto alle mie passate abitazioni. Se fosse stata un’auto
avrei detto che era d’un nuovo modello.
Mi sono affacciata
all’aperto e ciò che ho visto mi ha lasciata molto perplessa, anzi avevo quasi
voglia di rientrare in un esterno più confacente, ma poi ho pensato che avevo
chiesto al computer un luogo il più consono possibile alla mia crescita
intellettuale e spirituale, un luogo che mi aiutasse a tuffarmi sempre più
profondamente nelle memorie di computer. Dunque se lui aveva scelto questo
posto, era perché era quello giusto che rispondeva alle mie richieste.
E guardai fuori: l’aria era
lievemente azzurrata, attorno alla cupola che anche all’esterno era argentea vi
era un prato all’inglese molto ben curato e vicino alla cupola cespugli di
fiori colorati e profumatissimi. Dopo il cerchio d’erba sorgevano collinette
color ruggine di materiali ferrosi, cespugli pieni dei spine, intelaiature
metalliche coperte dalle erbacce, più lontano capannoni dai tetti sfondati,
tubi che s’infilavano nel terreno ed erano abbandonati forse da centinaia
d’anni, torri sbrecciate svettavano verso l’alto, e ciminiere, ciminiere d’ogni
tipo e dimensione, in mattoni, in cemento, in metallo che svettavano verso
l’alto, ma erano diroccate o inclinate, alcune erano addirittura cadute.
Sembrava una foresta
pietrificata abbandonata alla desolazione da centinaia d’anni. Alberi malati si
stagliavano nel panorama metallico dell’immane opificio abbandonato.
Mi sedetti trai fiori
osservando il panorama che fu industriale e dai database venne la memoria del
luogo. Era un opificio, anzi era l’Opificio, enorme possente grande quasi
quanto l’intero continente, con milioni d’uomini e di intelligenze artificiali
che vi lavoravano. E da qui usciva la maggior parte dei manufatti che servivano
per l’umanità, e questo è accaduto per centinaia d’anni finchè l’umanità ebbe
bisogno di quei prodotti, ma poi l’opificio cominciò a chiudere alcune parti
della sua produzione e molti lavoratori rimasero con le loro abitazioni
all’interno dell’area, ma poi tutto decadde sempre più in fretta. Alcune nuove
attività, ai margini dell’area furono riattivate o ristrutturate, ma il declino
fu sempre maggiore finchè l’area divenne impossibile da essere bonificata e fu
abbandonata con i suoi umani intrappolati all’interno, con le intelligenze
artificiali condannate all’inedia, con i macchinari che fermi si decomponevano
sempre più in fretta, con le torri argentee che venivano aggredite dai rampicanti,
con le ciminiere che s’inclinavano facendo assumere al territorio l’aspetto
d’una foresta maledetta.
Ed i contenitori, milioni di
contenitori, con le più disparate sostanze inquinanti residue, le pareti dei
quali sempre più si assottigliavano lasciando uscire licori venefici che si
intrecciarono ai miasmi dei residui tossici delle lavorazioni più inquinanti.
Montagne poi di prodotti finiti, tutti col marchio AZULH® stampigliato,
accatastati come rifiuti, divenuti essi stessi rifiuti.
E nella foresta malefica le
mutazioni ebbero il sopravvento ed animali mutanti cominciarono a strisciare
tra vegetali degenerati.
Questo era il luogo che le
era stato assegnato, questo era il punto da dove la conoscenza sarebbe
scaturita.
Questo era l’Eden del mondo
futuro.
Flavia si asciugo col dorso
della mano le lacrime che rigavano il suo volto e guardò con occhio nuovo la
foresta postindustriale, con i suoi miasmi e le sue ignominie, questo era il
fulcro per la partenza. Si soffermò poi sui fiori e vide che alcune bellissime
e coloratissime farfalle stavano danzando tra le corolle, e questo riuscì a
procurarle immenso piacere.
Guardò poi verso la selva di
ciminiere sbilenche e tra esse scorse una possente centenaria quercia che
maestosa svettava orientata verso il cielo ed alcuni uccelli cinguettavano trai
rami. Più in alto alcune rondini stridevano inseguendo piccole prede.
Malgrado tutto, Flavia pensò
che anche questo era un buon posto per ricominciare.
L’ESPLORAZIONE
Con mio cugino Carlos abitiamo al Villaggio, un posto desolato rannicchiato in fondo ad una valle che ha come sbocco un freddo mare. Gli abitanti saranno due o trecentomila, i posti di lavoro men che zero, a parte che uno non voglia imbarcarsi per la pesca. Dimenticavo, io mi chiamo Francois e con mio cugino abbiamo ottenuto un diploma alla scuola del Villaggio, io in fisica quantistica e mio cugino è esperto radarista. Due professioni del tutto inutili dalle nostre parti e di questi tempi, il Villaggio infatti è sempre più ripiegato in se stesso ed i contatti con gli altri centri abitati sono quanto mai sporadici e confusi, c’è addirittura chi sostiene che i contatti con gli altri si sono interrotti da oltre cento anni.
Dicevo che il Villaggio si snoda attorno al mare, ma è circondato dall’Opificio in tutti i suoi altri lati.
L’Opificio è abbandonato da alcune centinaia d’anni
e nessuno al Villaggio vuol parlarne, tutti lo rimuovono, come se non
esistesse, eppure è lì a solo due o tre chilometri dalle ultime abitazioni,
dopo i pochi campi coltivati a grano e a soia.
Ma nessuno ne vuol discutere, nessuno ci vuol andare
e tutti si comportano come se quest’immenso ex insediamento industriale non
esistesse. Ovviamente tutti i genitori vietano ai loro ragazzi anche
d’avvicinarsi e parlano di gravi pericoli nascosti. Ma io e Carlos dei veti ce
ne siamo sempre fregati e così abbiamo cominciato ad esplorarlo usando un
sentiero che dal villaggio se ne va direttamente all’interno dell’area
dell’Opificio. Lo strano è che il sentiero si diparte proprio dalla strada
principale della nostra città, basta proseguire sempre a dritto, finchè gli
edifici divengono sempre più fatiscenti e meno abitati, andando ancora avanti
si notano alcuni fabbricati che sono caduti e le macerie sono fin sulla strada,
nessuno abita più qui, erano le case degli operai dell’Opificio, uno dei tanti
villaggi operai che sorgevano nell’area: tutte le case sono abbandonate da
tempo immemorabile. La strada è ora ingombra di macerie e di rottami, di fili
aggrovigliati che dall’alto arrivano fino a terra, da carcasse di vecchie auto
totalmente arrugginite e quasi irriconoscibili, da carrelli di supermercato
ossidati e rovesciati, ed anche da ossa umane, questa è stata l’ultima nostra
macabra scoperta.
La strada è sempre più ingombra di questi materiali
man mano che si prosegue ed un sentiero si snoda, ben stagliato tra i cumuli di
macerie e continua serpeggiando verso l’area dell’Opificio. Questa è la strada
più breve ed è quella che noi in bicicletta abbiamo innumerevoli volte usato
per le nostre esplorazioni che si sono spinte sempre più addentro a quest’area
abbandonata da centinaia d’anni non solo dagli uomini ma anche dagli dei.
Sempre con la massima attenzione e stando attenti a
non allontanarci mai dal sentiero abbiamo visto migliaia di collinette ferrose
ed altre composte da mucchi di manufatti corrosi dal tempo tutti col marchio
AZULH® ancora leggibile, abbiamo attraversato foreste di ciminiere sbilenche,
alcune cadute su un terreno dal quale uscivano tubi d’ogni forma e dimensione,
alberi degenerati ed erba velenosa. Abbiamo evitato i cespugli rotolanti che
ogni tanto appaiono anche sul sentiero ed i laghetti che contengono chissà
quali mostruosità mutanti.
Ed eravamo sempre più affascinati dall’Opificio in
dispregio alle opinioni dei nostri genitori che ci dicevano d’evitarlo, ed anzi
ci consigliavano pure di non pensarci, che se non si pensa a certe cose oscene,
esse cessano d’esistere.
Ma sia a me che a Carlos questa filosofia non
piaceva proprio e se è per questo, non piaceva neppure al gruppo dei nostri
amici che cominciarono anch’essi a seguirci nelle nostre esplorazioni. Si
racconta che l’Opificio fosse grande quasi come il continente e che all’interno
vi erano villaggi operai, si racconta anche che chiusero prima alcuni reparti,
poi pian piano si spense del tutto, altre attività sorsero sulle sue ceneri
soprattutto nelle zone periferiche, ma poi tutto fu abbandonato. Conoscevamo
ormai il primo chilometro del sentiero come le nostre tasche: all’inizio si
snodava tra ciminiere sbilenche ed un vasto capannone caduto sul lato destro,
mentre alla sinistra c’erano alberi inframmezzati da scatoloni che sembravano
fatti di cemento ed avevano un lato aperto, gli scatoloni erano tutti vuoti, se
mai v’era stato qualcosa all’interno, ora più non c’era. Più avanti v’era una
radura con erba rada della grandezza d’un campo sportivo e questo spiazzo era
quasi del tutto pulito, a parte alcuni rotoli di filo metallico e di un paio di
cumuli di materiale nerastro. Con gli amici del nostro gruppo che venivano
spesso con noi, Federica, Felicita, Patrizina, Salvatore, Bruno e Ricardo,
avevamo deciso di ripulire l’area e trasformarla in un campo da gioco per noi
costruendovi anche una base. Anche Fatta era sempre con noi: non sapevamo il
nome di questa ragazza, anche perché non parlava quasi mai, ma tutti la
chiamavano Fatta perché era sempre strafatta di roba, ma ci seguiva, non ci
creava noie, anzi la dava a tutti quelli che dormivano con lei, era comunque
carina, sempre ben vestita e pulita, non sapevamo neppure ove abitasse, ma
tanto era sempre più con noi. E proprio un pomeriggio che stavamo di buona lena
lavorando alla pulizia del campo vedemmo arrivare un personaggio che già al
Villaggio conoscevamo. Era Rodrigo il barbone, che spesso arrivava al bar dove anche
noi sostavamo e raccontava le storie più strampalate che abbia mai sentito, tra
l’altro sosteneva di vivere nell’Opificio e che voleva pian piano bonificarne
un pezzo, ma nessuno ci credeva e per tutti era il solito vecchietto senza
pensione totalmente scoppiato. Rodrigo s’avvicinò a noi e ci chiese se volevamo
anche noi trasferirci nell’opificio e senza attendere una risposta cominciò a
darci una mano portando via con noi dei detriti dall’area verde.
Da quel giorno venne spesso a trovarci, sempre per aiutarci
e cominciò a parlare dei pericoli del posto, pericoli che noi dovevamo evitare
se volevamo rimanere lì. Ci disse di seguire sempre i sentieri che erano i
posti più sicuri ove mettere i piedi, di non entrare mai nelle costruzioni
ancora in piedi perché erano zeppe di trappole mortali, di non sostare mai di
notte nell’opificio senza un fuoco od una luce accesa, di non mangiare o bere
nulla che provenisse o fosse nato nell’opificio senza che fosse stato
analizzato approfonditamente, ci regalò anche un contatore geiger dicendoci di
controllare sempre la radioattività.
Oltre ai pericoli chimici e meccanici vi erano anche
piante ed animali mutanti, bisognava stare ben attenti se volevamo rimanere
vivi. Se poi volevamo creare una base all’interno, ci consigliò di fare come
lui che non aveva ripulito alcun edificio e non aveva costruito nulla, aveva
semplicemente portato lì una roulotte, ed in quella abitava. Ed un giorno ci
portò a vedere dove stava, bastava girare su un nuovo sentiero sulla destra
rispetto al nostro prato e dopo meno di un chilometro si arrivava ad una
piccola radura con nel mezzo una roulotte, una di quelle tutte in alluminio
rivettato, il caravan Airstream. Ci disse che il compito che si era prefisso
era quello di bonificare una parte dell’area e ci mostrò fin dove lui l’aveva
resa sicura, ci consigliò di fare lo stesso anche noi dopo che ci fossimo
insediati.
Ma Rodrigo era proprio fissato su quel caravan e
poco alla volta ci raccontò tutta la storia di questo mezzo facendoci anche
vedere antiche foto, vecchie riviste ed alcuni filmati. Chi l’avrebbe mai detto
che noi saremmo finiti a scuola di design con Rodrigo come insegnante? Nato nel
1933 il caravan Airstream, con la sua carrozzeria avvolgente d’allumino a
specchio rivettato divenne subito un archetipo formale destinato a divenire
un’icona impressa nell’immaginario collettivo americano al pari degli autobus
Greyhound e delle bottigliette della Coca-Cola. Dietro questa icona della
cultura americana non ci fu un designer o un progettista nel senso classico
della parola (come si nascondeva la geniale figura di Raymond Loewy dietro il
disegno d’alcuni modelli della Greyhound e della Coca-Cola), ma si trovava un
tipico self made man partito da molto lontano rispetto alla progettazione industriale,
eppure senza dubbio un classico esponente di quello che fu il sogno americano.
Il personaggio in questione fu Wally Byam fondatore dell’Airstream, ma forse
anche qualcosa di più, il fondatore di una filosofia del viaggio e dell’abitare
nomade: e su questo personaggio abbiamo imparato tutto, proprio tutto, e poco
c’è mancato che subissimo delle interrogazioni.
Byam nacque e crebbe non in una grande città, ma in
campagna nei pressi d’una cittadina, Baker nell’Oregon: si ricorda in proposito
che una delle più leggendarie piste della storia del West fu la Oregon Trail.
Nella sua infanzia ai primi del 1900, conobbe l’esaltante esperienza di vivere
al seguito di alcuni parenti allevatori, su dei carri attrezzati con materassi,
stufa e bacinella dell’acqua. Nella migliore tradizione mitizzata da Melville
(solo in due sapevamo chi fosse Melville e Rodrigo ci rimase un po’ male) in
età ancora adolescenziale s’imbarcò per tre anni su delle navi, come cameriere
prima ed in seguito come marinaio. Nel 1920 arrivò all’Università di Standford
e si laureò in legge nel 1923. Ma Byam non si sentì tagliato per il mondo
forense e si lanciò nel campo della pubblicità ove ottenne un discreto
successo. Non è un caso che gran parte dei designer che daranno vita allo
streamline si fosse fatta le ossa, come creativi, proprio in questo campo della
propaganda commerciale. In quegli anni fu tra primi ad intuire le grandi
possibilità dei manuali a dispense venduti per corrispondenza, in particolare
si lanciò nella pubblicistica legata al fai da te.
Trai tanti fascicoli proposti ve n’era uno dedicato
all’autocostruzione di una casa viaggiante su ruote, tema che iniziava a
suscitare un discreto interesse in quel periodo. Ma il modello proposto venne
pesantemente criticato dai lettori, e Byam dopo averlo costruito e provato di
persona riconobbe alcuni dei difetti osservati dai lettori e decise pertanto di
studiare il problema riprogettando una casa viaggiante ex novo. Per quanto
primitivo questo suo primo risultato convinse e trovò anche un finanziatore
disposto a realizzarne alcuni esemplari. Il punto forte di questo suo primo
progetto, che costituirà una pietra miliare nel settore, fu quello d’offrire
innanzitutto una maggior abitabilità in altezza, abbassando il pianale il più
possibile ed alzando il soffitto in modo da poter stare in piedi all’interno
senza problemi. Siamo sempre negli anni venti quando questo progetto di caravan
da lui messo a punto venne venduto per corrispondenza con il libretto
d’istruzioni per l’autocostruzione. Nel 1930 lasciò legge, pubblicità ed
editoria e nel giardino della sua casa si operò a variare e migliorare in
prodotto. Sperimentò l’uso del compensato, della masonite e dei metalli
leggeri. Per quanto riguarda gli impianti mise a punto un appropriato sistema
idraulico, applicò gabinetti chimici, frigoriferi e stufe a gas. Rispetto al
sistema di trasporto s’interessò alle tecniche di costruzione aeronautiche per
migliorare la resistenza all’aria e limitare i danni dovuti alle vibrazioni.
Furono gli anni dal 1933 al 1939 quelli della grande evoluzione del trasporto
aereo passeggeri, ove si distinse per innovazioni la serie DC1, DC2, DC3 della
Douglas che sicuramente influenzò Byam. Nel 1943 venne concepito il nome
Airstream derivato dai messaggi che gli scrivevano i suoi affezionati clienti
descrivendo la sensazione di viaggiare
sul suo modello di caravan “ like a strema of air”.
Il 17 gennaio 1936 Byam fondò la Airstream Trailer
co. Lanciando il modello Clipper, fortemente influenzato dai moderni aeroplani
e realizzato in monoscocca d’alluminio rivettato. All’interno era dotato di
quattro posti letto, dinette in tubolare, sedili trasformabili ed armadi
cambusa con porta di separazione. Come sottolineava la pubblicità il Clipper
offriva il più avanzato sistema d’isolamento dal calore e di ventilazione, il
più completo impianto elettrico d’illuminazione ed in alcuni modelli un sistema
sperimentale di condizionamento dell’aria con ghiaccio secco. Nel 1937 questo
modello risultava rivoluzionario rispetto alla concorrenza e l’azienda non
riusciva a soddisfare le ordinazioni. I primi utilizzatori degli Airstream
vennero chiamati “crans” che tradotto letteralmente significa manovella, ma
nello slang americano significava qualsiasi macchina scassata ed in disordine.
Un fenomeno interessantissimo, stimolato dallo stesso Byam, fu l’aspetto
socializzante derivato da questo fatto di riconoscersi airstreamers, ovvero
abitanti degli Airstream. Nacque l’abitudine di riunirsi in gruppi sempre più
grandi e di trasferirsi come colonie in costante movimento. Alla fine degli
anni ‘30 le amministrazioni cittadine e dipartimentali si trovarono a far
fronte a notevoli problemi di regolamentazione di questo esercito di nomadi,
descritti dall’opinione pubblica con l’azzeccata immagine di “turisti in
lattina”. Una parte stanziale della popolazione dei suburbi protesterà per
questa invasione ma gli airstreamers s’organizzeranno per concordare
regolamenti, associazioni e codici di comportamento. Le autostrade a quattro
corsie coast to coast erano già aperte e gli americani riscoprirono il piacere
del viaggio abitato sulle tracce dei pionieri nella migliore tradizione del
mito americano. Per la Airstream furono anni d’oro ma con la seconda guerra
mondiale venne decretata dal governo la proibizione dell’uso dell’alluminio per
scopi commerciali in quanto considerato materiale strategico bellico. L’azienda
fu costretta a chiudere e Byam trovò impiego presso un costruttore d’aerei a
Los Angeles, e per lui fu importante venire a contato con la continua messa a
punto dei materiali e delle strutture in lega leggera per la costruzione
d’aerei da combattimento.
Nel 1948 riprese l’attività l'Airstream Trailers co.
in un edificio dell’aeroporto della California e nel 1955 il club airstreamers
contò diciannovemila iscritti. Venne altresì potenziato il sistema di vendita.
Nel 1978 si aprì un nuovo capitolo per l’azienda che si trasferì a Jacksonville
con tutti gli impianti produttivi.
E Rodrigo in maniera maniacale ci ha fatto imparare
non solo tutto questo, ma anche molto di più facendoci studiare i vari grafici
tecnici del mezzo, per lui e per noi, un guscio d’astronave che permette la
normale vita familiare all’interno, anche se le obiezioni più frequenti erano,
ma qui non siamo in America, e poi nessuno sa in che anno siamo.
Ma Rodrigo rispondeva sempre che l’anno non aveva
nessuna importanza e neppure su quale continente fossimo, l’importante era che
noi eravamo i pionieri di una nuova frontiera e su questo concordavamo. Ci
aveva inoltre promesso due caravan uguali al suo se noi avessimo imparato
tutto, lui sapeva dov’erano conservati e ce li avrebbe consegnati, ci avrebbe
inoltre aiutato per le modifiche necessarie per garantirne l’abitabilità
nell’Opificio.
Una promessa che ci interessava e che abbiamo presa
per buona.
Intanto l’area che noi avevamo scelta era
completamente ripulita e stavamo organizzandoci per andare a prendere i due
caravan, quando Bruno scoprì il pollaio a dieci minuti di bicicletta da noi.
Un pollaio? Chiedemmo noi, e quali animali ci sono?
Polli e tacchini stranissimi, giganti, sicuramente mutanti e tutt’intorno c’è
un reticolato che ha tutta l’aria d’essere sotto alta tensione, c’è poi una
grande capanna all’interno del recinto e sembra abitata.
Noi eravamo un po’ increduli, ma decidemmo di
verificare, ne parlammo prima con Rodrigo, e lui ci consigliò di lasciar
perdere, tanto gli animali mutanti non erano per noi commestibili: chissà quale
essere li alleva. Lasciate perdere.
Ma non demmo retta al suo consiglio questa volta e
la curiosità ci spinse tutti il mattino dopo a recarci presso il pollaio.
Ci fermammo ad una certa distanza di sicurezza e
constatammo che Bruno aveva ragione. Mentre noi cercavamo di stare nascosti il
più possibile, Bruno s’avviò verso il recinto e noi lo chiamammo, perché
tornasse indietro, che poteva essere pericoloso, ma lui niente proseguì
tranquillo ed era ormai ad un paio di metri dal reticolato quando udimmo un
sibilo e la parte superiore del corpo di Bruno dopo qualche istante scivolò di
lato rovesciandosi sull’erba che era divenuta rossa, le gambe e la vita
rimasero ancora in piedi per circa un minuto poi caddero nell’erba ed i piedi
cominciarono a scalciare.
Noi restammo inorriditi, senza dire una parola a
guardare, non so per quanto tempo, poi saltammo sulle biciclette e tornammo di
filata al Villaggio ed ognuno ritornò alla sua abitazione. Quando arrivai a
casa mi accorsi che Fatta con la sua bicicletta m’aveva seguito ed ora era
dietro di me, la presi per la vita e m’accorsi che tremava, allora la portai in
casa e la condussi nella mia stanza, le indicai il bagno e più tardi le portai
del cibo in camera.
Il giorno dopo Fatta se ne andò, forse dai suoi? Noi
non tornammo all’Opificio se non dopo alcuni giorni. Solo uno di noi andò da
Rodrigo per raccontargli cosa era accaduto, e lui scosse il capo e disse, ve
l’avevo detto di lasciar perdere, Bruno è stato tagliato da una trappola tesa
con un filo monomolecolare, sono comuni queste trappole nell’opificio.
Intanto al Villaggio tutti s’accorsero che Bruno
mancava, non era infatti tornato a casa e la mattina non c’era a scuola, lui
frequentava ancora. Che fine avesse fatto sembrava però non interessare
nessuno, o forse tutti sapevano che andavamo all’Opificio ed era normale che
qualcuno sparisse.
Quando tornammo all’opificio con le biciclette ci
recammo ove Bruno era morto con l’intenzione di seppellire il corpo, e tutti
eravamo armati, chi con armi a proiettile e chi con pistole laser, le avevamo
prelevate nelle nostre case, eravamo anche decisi, se ne fosse presentata
l’occasione di vendicare il nostro amico.
Arrivammo nei pressi del pollaio coi suoi enormi
strani e mutanti animali e non vedemmo il corpo di Bruno, ma poco lontano da
dove era caduto vedemmo un mucchietto di bianche lucide ossa.
Il coraggio di tutti svanì e le armi ci sembrarono
inutili, così rimontammo silenziosi in bicicletta e andammo al caravan
dell’amico barbone, che ci stava aspettando.
Ci disse che Bruno s’era comportato da stupido e che
gli stupidi nell’Opificio non duravano a lungo, poi ci disse che era giunto il
momento di prendere i nostri due caravan e di portarli nel nostro prato. Poi
per la prima volta ci raccontò un po’ della sua vita, lui era stato un
insegnante all’Università del Villaggio, prima che venisse chiusa, era un
ingegnere meccanico. I due caravan erano in un hangar dell’Università ed erano
conservati in ottimo stato, come nuovi, all’inizio erano tre, ma uno l’aveva
preso lui tanto tempo fa. Poi passò alle cose pratiche, tra l’hangar
dell’Università ed il nostro prato c’erano circa cinque chilometri tra viottoli
e strade con macerie. Occorreva ripulire il passaggio e poi arrivare con i
caravan. Per spostare i caravan, nessun problema, avevamo braccia e biciclette:
bastavano, e Rodrigo ci mostrò delle foto ingiallite di Airstream spostate da
un unico ciclista!
Ci vollero tre giorni per ripulire la strada che
avremmo dovuto fare coi caravan ed eravamo tutti al lavoro compreso Rodrigo che
aveva uno strano arnese, che serviva a spostare gli oggetti: antigravità? Era
un carrello da trasportare a mano con quattro ruote tutte in fila che
sostenevano un cubo nero dal quale usciva un tubo flessibile metallico che
terminava nel calcio di un oggetto verde che sembrava un fucile spaziale di
plastica per ragazzi.
Poi uscimmo coi caravan, io e Carlos pedalavamo
attaccati a due mezzi e gli altri a piedi spingevano: in un giorno ce la
facemmo e lasciammo alla sera gli Airstream nel mezzo al nostro prato, Rodrigo
attivò l’impianto d’illuminazione e per la prima volta restammo tutta la notte
nell’opificio ed anche Rodrigo rimase con noi.
Rodrigo il barbone era ormai divenuto per tutti noi
il Professore e sempre più ci stupiva con tutte le sue conoscenze, anche
pratiche che ci avrebbero permesso d’insediarci tranquillamente nell’opificio.
La nomea di barbone tra l’altro se l’era creata lui stesso, stanco dei
privilegi accademici, ormai obsoleti, dei quali aveva beneficiato. Visto che la
sua sapienza era divenuta inutile aveva deciso di darsi a tempo pieno a
qualcosa di costruttivo, e così aveva bonificato un’area dell’Opificio, una
piccola cosa, ma costantemente proseguiva. E tirare avanti, tirava avanti bene,
malgrado il travestimento, aveva infatti la sua pensione da docente, poi
coltivava molte cose selezionate accanto al suo caravan, ed un giorno ci fece
vedere l’orto e gli alberi da frutto che si trovavano li attorno. Si coltivava
praticamente tutte le verdure necessarie, aveva un pozzo artesiano,
costantemente controllato dal quale usciva acqua quasi pura, ma veniva subito
filtrata da un altro piccolo impianto. E l’acqua irrigava ogni verdura ed anche
della buona canapa indiana accanto ai filari di pomodori e delle piante di
tabacco.
Ci disse di non essere l’unico nella nostra zona a
bonificare l’area, c’era anche quella che lui chiamava la Dea, ci incuriosì ed
una mattina ci portò a vederla.
Ad un’ora di bicicletta dalla nostra base sempre
seguendo i sentieri si arrivava ad una depressione ove tutto era verde come nei
campi da golf giù al Villaggio, vi erano cespugli di rose in fiore ed altre piante
molto belle. Tutte le scorie in questa zona erano state rimosse ed anche le
ciminiere e gli edifici fatiscenti. Anche gli alberi degenerati erano spariti
ed al loro posto sorgevano querce, ontani e pini.
Proseguimmo in questo giardino dell’Eden ed arrivammo
fino a scorgere una cupola argentea circondata dal verde e dai fiori.
-
Oltre
non possiamo andare, dobbiamo fermarci qui. C’è un fortissimo campo di forza
che respinge ogni cosa. Ma da qui possiamo osservare e non c’è paura alcuna
anche se siamo visti. Ecco la Dea, la in fondo, guardate quanto è bella!
Guardai nella direzione indicata dal Professore e
scorsi tra i cespugli di rosa una bellissima donna, bionda che sembrava nuda,
ma a meglio osservarla, molto probabilmente era ricoperta da una guaina trasparente
di una qualche sostanza aderente, sì che la sua pelle sembrava rilucere.
Rimanemmo per molto tempo in silenzio ad osservarla,
sdraiati sulla morbida erba, quasi fossimo ad un pic-nic, poi tornammo verso la
nostra base.
L’opificio non era poi tutto un incubo!
Passavano i giorni e la base era sempre più
accogliente, si decise di andare a prendere ciò che rimaneva di Bruno per
dargli una onorevole sepoltura, tra l’altro al Villaggio nessuno parlava più di
lui, era come se non fosse mai esistito, pure per la sua famiglia.
Chiedemmo al Professore se poteva venire con noi a
recuperare le ossa con quel suo carrello antigravitazionale, così non avremmo
dovuto avvicinarci troppo al luogo delle trappole col filo mononucleare. Il
Professore ci disse subito di sì e fermò il carrello alla bici e tutti assieme
ci dirigemmo verso il pollaio.
Quando arrivammo ci accorgemmo che il terreno era
stato tutto smosso e le zolle della terra erano state rovesciate, sembrava che
qualcuno o qualcosa avesse arato tutta la zona. Non solo non c’erano più le
ossa di Bruno, ma non c’era più neppure il pollaio con i suoi animali
degenerati ed anche la capanna era sparita.
Con cautela ci addentrammo nel terreno che sembrava
arato, ma non trovammo niente di vivo, né tracce delle passate presenze, solo
qualche antico ed incomprensibile manufatto con la scritta AZULH® che emergeva
dal terreno assieme a piccole pietre.
-
O
chi abitava qui s’è trasferito ed ha cancellato ogni traccia della sua passata
presenza, o qualcuno o qualcosa ha bonificato l’intera area, magari iniziando
una nuova piantagione. Torneremo poi a controllare.
Così disse il Professore e dopo un’ultima occhiata
tutti girammo le bici dirigendoci di nuovo alla nostra base.
I caravan erano divenuti veramente accoglienti,
adesso avevamo energia illimitata ed acqua quasi pura, potevamo anche coltivare
qualcosa, avevamo ripulito ancora vari altri pezzi attorno alla base ed avevamo
gettato i detriti in un buco li vicino che avevamo quasi riempito, era la
nostra personale discarica: quando il buco fosse stato quasi del tutto
ricoperto avevamo deciso di finirlo di riempire con buona terra e di piantarci
sopra un ulivo, è una pianta che dice porti fortuna, e questo posto è stato fin
troppo martoriato, adesso ha bisogno di fortuna e di gente come noi o come il
Professore e la Dea.
Eravamo adesso giunti ad una costruzione
rettangolare che sembrava in cemento con una sola porta su un lato, che pareva
anch’essa in cemento. La costruzione misurava circa venti metri per lato ed una
diecina in altezza. Pur con tutte le cautele volevamo entrare, per vedere cosa
ci fosse al suo interno, per ripulirla e ristrutturarla a nostro uso e consumo.
Avevamo un grosso laser da taglio ed il Professore ci lavorò a lungo per
aumentarne la potenza, quando fu pronto indirizzammo il fascio di luce contro
la porta e ne ritagliammo la sagoma.
Non successe nulla, finchè Fatta non andò fino alla
porta, che tra l’altro doveva essere ancora calda, spinse e la porta con un
schianto cadde all’interno.
Facemmo prima luce all’interno, poi scandagliammo il
pavimento e le pareti coi sensori, attivammo il geiger ed il rilevatore
magnetico, insomma usammo tutti gli accorgimenti prima di entrare con
tranquillità. Tutto all’interno era vuoto, tutto era pulito e come nuovo,
sembrava che la stanza fosse stata completamente sigillata. Sul pavimento
giacevano quattro casse uguali di plastica grigia.
Le scannerizzammo per bene una alla volta, erano
piene d’oggetti e sembrava che non vi fosse alcun pericolo, così spostammo le
quattro casse fuori dalla costruzione e le lasciammo all’aria aperta
ripromettendoci di trovare la maniera d’aprirle senza rovinare il contenuto.
Poi ci dedicammo alla costruzione ed in poco tempo
la trasformammo a due piani con finestre e stanze all’interno. Era praticamente
finita al grezzo, poi pian piano l’avremmo rifinita per bene, il tempo non era
che mancasse, anche perché ognuno di noi una volta la settimana si recava alla
propria casa e prelevava ciò di cui aveva bisogno. Poi avevamo anche avviato le
coltivazioni e contavamo di rivendere bene l’oppio e la maria.
Un giorno arrivò il Professore e ci disse d’aver
scoperto come s’aprivano quelle casse ed estrasse un piccolo telecomando, forse
era a infrarossi, ci armeggiò un po’ ed infine i quattro coperchi si sollevarono.
LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE
La prima cassa era colma di piccoli oggetti che sembravano di cristallo, ma erano tiepidi al tatto, e che cambiavano costantemente di colore in maniera lenta ma costante. Erano tutti spigolosi con angolature che sembravano impossibili e cortocircuitavano la vista. Non se ne comprendeva le funzioni o forse erano solo dei soprammobili, dei pezzi artistici d’arredamento.
Ci rivolgemmo allora alla seconda cassa colma di
piccoli cilindri con le due estremità appuntite, sembravano delle penne, e lo
erano, tra l’altro scrivevano dalle due estremità ed il colore del segno che lasciavano cambiava ogni volta che si
mutava la punta.
La terza cassa era piena d’orologi da polso, anche
se di forma inconsueta erano inequivocabilmente degli orologi da polso, e
funzionanti, perfettamente funzionanti. Erano composti di un materiale
metallico altamente flessibile e morbido, con un cintolino che s’autoregolava.
Il quadrante sembrava fatto dello stesso materiale che però diveniva
trasparente e lasciava vedere all’interno le cifre digitali dell’ora esatta che
rapidamente mutavano.
La quarta cassa conteneva scacchiere che generavano
le pedine olografiche degli scacchi di splendida fattura. Tutto sembrava fatto
d’onice e le pedine si muovevano col pensiero dei due giocatori. Nella scatola
c’erano cinquanta tastiere tutte perfettamente funzionanti.
Ogni oggetto, aveva ovviamente stampigliato il
solito marchio AZULH® che era presente in ogni manufatto dell’Opificio.
Tutti pensammo subito che avremmo potuto aprire nel
Villaggio un negozio per la rivendita degli oggetti ritrovati e che coi crediti
guadagnati avremmo potuto acquistare il macchinario per poter con sicurezza
portar avanti un serio piano di recuperi.
Tornati al Villaggio con i campioni dei nostri
ritrovamenti, non aprimmo un negozio, ma il proprietario del più grande spaccio
del Villaggio s’aggiudicò l’esclusiva d’ogni nostro ritrovamento e ci assicurò,
con contratto, il sessanta per cento del ricavato delle vendite. Eravamo anche
ricchi, ed avevamo per caso impiantato un’attività in un luogo ove la
disoccupazione anche giovanile era la norma.
E la sera della stipula del contratto, festeggiammo
nelle nostre due roulotte e ponemmo le basi per la ristrutturazione dell’hangar
rettangolare che avevamo bonificato.
Trovammo anche molte altre cose strane e tutto fu
rivenduto con buon margine, ristrutturammo anche l’hangar utilizzando una
cooperativa edilizia che s’incaricò di tutti i lavori. In tutto il Villaggio
una sola cooperativa fu disponibile a venire a lavorare nell’opificio, tutti
gli altri ne avevano ancora una paura matta. Ci divertimmo poi ad arredare la
nostra base, stavolta in muratura, senza però mai dimenticare l’esplorazione,
la bonifica ed i recuperi.
Io e Fatta facevamo ormai coppia fissa e spesso
andavamo in avanscoperta con dei piccoli mezzi scoperti a quattro ruote che
funzionavano ad energia solare e che s’infilavano silenziosi da tutte le parti.
Ed un pomeriggio mentre lentamente procedevamo scannerizzando e registrando il
territorio, eravamo a circa cinque chilometri dalla base e non eravamo usciti
dal sentiero principale, quando vedemmo una depressione sotto di noi
attraversata da una linea ferroviaria, che entrava ed usciva in due gallerie
che sembrava scendessero nel sottosuolo. E nel bel mezzo della depressione
c’era una vecchia stazione ferroviaria, una di quelle come si vedono nei
villaggi dei vecchi telefilm americani. Ovviamente era fatiscente e circondata
da rifiuti d’ogni tipo: i soliti cavi metallici, tavole di legno abbandonate,
cumuli di macerie, pali divelti, carcasse d’auto da tempo trasformate in mucchi
di ruggine. Ed in questa desolazione alcuni cespugli rotolanti si muovevano
lentamente. Misurammo la radioattività, ed era alta, ma non tanto da non
permetterci un piccolo giro. Stavamo scendendo quando una inaspettata nebbia si
diffuse in folate dense all’interno della depressione. Ci fermammo e
cominciammo ad udire lo sferragliare d’un treno in arrivo. Fatta si strinse a
me e con estrema curiosità stavamo guardando l’ingresso delle due gallerie
anche se ora era a tratti coperto dalla nebbia. Ed un treno uscì, un treno
nero, affusolato e sinistro nella fiancata del quale si vedevano dei finestrini
e delle porte, ma dietro essi il nero. Il convoglio spinto da una locomotiva da
incubo, nera costellata da ammiccanti luci rosse che sembrava uscita da un
delirio futurista, si fermò per qualche minuto e noi lo osservammo anche con il
binocolo e dietro le porte ed i finestrini neri ci sembrò di vedere dei volti
che stavano guardando fuori. Poi la locomotiva emise un fischio acuto ed il
convoglio ripartì imboccando l’altra galleria e sparendo alla nostra vista,
mentre noi fummo investiti da una folata di vento gelido. La nebbia scomparve e
noi ritornammo sul sentiero.
La sera raccontammo l’incontro agli altri e s’aprì
tutta una serie d’ipotesi e di discussioni anche su altri misteri
dell’opificio. Il Professore ci disse che lui aveva fatto delle interessanti
scoperte e sarebbe bene che noi lo ascoltassimo con attenzione. Un po’ per
scherzo ed un po’ per gioco ci trasferimmo al piano terra della nostra base ove
avevamo allestito una sala conferenze e mettemmo il professore in cattedra
perché ci facesse la nuova lezione, e vi garantisco che fu una lezione
interessante.
Aveva coi sensori scannerizzato l’intero territorio
inoltrandosi fino a venti chilometri e le mappe così realizzate ci sarebbero
state molto utili. Ovviamente i siti pericolosi erano tanti, chissà quante
sostanze venefiche avevano consumato i propri contenitori e s’erano
sparpagliate in giro, chissà quanti fuochi, mai spenti covavano ancora sotto le
macerie e l’oblio.
Ci chiese se avevamo notato quella specie di
scrittura formata da quadrati sovrapposti che si trovava quasi ovunque sui
manufatti dell’opificio, ed era molto evidente, scritta in rosso, alle basi
delle ciminiere. Lui l’aveva decifrata, non era una scrittura ma si trattava di
stringhe di numeri. Ogni costruzione nell’opificio era stata numerata, perché?
Ma la domanda più interessante era un’altra, il Professore ci disse d’esser
riuscito a datare le costruzioni che sorgevano nel nostro settore e le scritte.
Le costruzioni erano state abbandonate quattro, cinquecento anni fa, mentre le
scritte erano state fatte circa trecento anni fa, cioè duecento anni dopo la
chiusura dell’opificio. E chi aveva numerato tutto? Nelle memorie non c’è
traccia di quella numerazione che tra l’altro non è neppure decimale ma è
basata sul dodici, ed il professore ci disse d’aver guardato bene tutte le
memorie esistenti. Ma allora l’opificio è chiuso da cinquecento anni? Fu la
domanda che tutti noi ponemmo poiché non pensavamo proprio che fosse passato
tanto tempo. Sì, ci rispose il Professore e posso essermi sbagliato di cento
anni in più o in meno, aggiunse.
Quella sera ci addormentammo
assillati da mille domande che ci ponevamo, mille domande e nessuna risposta
certa.
Mi chiamo Rezia, ma ormai tutti mi chiamano Fatta,
per me un nome vale l’altro. Mia madre era una stella del sistim e molti si
collegavano in rete con lei soprattutto per scoparsela, mio padre l’ho solo
intravisto qualche volta e quando veniva a trovare me, finiva sempre per
litigare con mia madre. Lei non si curava minimamente di me e sono sempre stata
completamente libera ed ho sempre potuto fare quello che volevo mentre mia
madre se ne stava in rete a scopare con gli altri e di me tutti se ne fregavano
altamente. Ma quello era il suo lavoro e dicono che fosse anche parecchio
brava. Già da bimba ho cominciato ad
usare lo stimolatore neurale, nessuno me l’ha mai impedito e l’ho sempre
regolato sul sogno e sul godimento. Me lo sono poi fatto impiantare ed a mia
volontà ho scariche in ogni momento. Sicuramente è per questo che mi chiamano
Fatta, gli altri s’accorgono che sbiello in continuazione, anche quando sono
lucida e lascio al minimo lo stimolatore perché la realtà diviene più onirica,
a più colori ed a sensazioni dolci. Ma con Francois ho riscoperto, o forse
scoperto per la prima volta, alcune sensazioni dolci della vita reale che non
credevo esistessero, con lui infatti posso spegnere lo stimolatore ed è una
cosa che ultimamente faccio sempre più spesso. Ed ho ripreso a parlare con gli
altri, cosa questa che un tempo mi riusciva estremamente faticosa ed evitavo di
farla anche perché lo stimolatore mi faceva intravedere i pensieri degli altri.
Quelli di Francois li ascolto a stimolatore spento. Ed anche questi amici,
questo luogo m’intriga, come un viaggio, più mortale di quello neurale, con più
pericoli, ma estremamente intrigante. Per questo vado in avanscoperta da sola o
con Francois ed annoto i nostri futuri passi e le nostre future ricerche.
E nei miei viaggi ho incontrato il prato delle
farfalle, in vasto prato abitato da grandi farfalle multicolori che svolazzano
qua e la senza posa posandosi sui fiori e girando, quasi ballando tra loro.
Appena le vidi, ero in bicicletta, smontai e mi misi seduta su una grossa ruota
dentata che giaceva semiaffondato nel terreno. Pensai subito allo stimolatore e
per un attimo credetti fosse un’allucinazione da lui indotta, anche se lo
stimolatore era regolato al minimo, quel minimo che da alla realtà un
sottofondo musicale come negli antichi film. Lo spensi, ma le farfalle rimasero
a danzare davanti ai miei occhi ed io rimasi non so quanto tempo incantata ad
osservarle, poi passeggiai nel mezzo ad esse ed alcune di loro si fermarono
addosso a me e poi svolazzarono via. Parlai agli altri del prato delle farfalle
ed una mattina ci recammo in gruppo a vederle: Con me c’era Francois, Carlos,
Federica, Felicita, Patrizina, Salvatore, e Karin in giovane di colore che
faceva parte della cooperativa edilizia, ma è rimasto con noi. Eravamo tutti in
bici e quando siamo arrivati tutti si sono fermati estasiati ad osservare la
danza delle mille farfalle colorate. Eravamo lì da circa un’ora quando
Salvatore ha cominciato ad urlare e non mi è riuscito capire perché. Una
farfalla lo aveva punto? Ma perché? E non solo ma altre farfalle sembrava
volessero aggredirlo, poi ho visto Francois raccogliere un barattolo di vetro
da terra ed aprirlo, da barattolo è uscita volando una farfalla. Appena la
farfalla ha spiccato il volo tutto è tornato normale, ma non Salvatore che
gridava senza emettere alcun suono. Carlos ha afferrato Salvatore e senza tanti
complimenti l’ha posato sulla canna della bicicletta ed è partito di corsa. Noi
gli siamo andati dietro e Carlos viaggiava come un vero corridore, siamo
arrivati alla base ed ha proseguito è arrivato fino al villaggio e s’ è fermato
solo davanti all’Ospitale ed ha lasciato Salvatore agli infermieri del pronto
soccorso dicendogli che un insetto l’aveva punto. Hanno cominciato a parlare di
shock anafilattico e l’hanno subito potato via in lettiga di corsa mentre un
dottore gli faceva delle iniezioni.
Carlos s’è stravaccato su una poltrona ed era
ansimante, neppure un’ambulanza poteva essere stata così veloce. Abbiamo
aspettato tutti un sacco di tempo, poi un giovane dottore ci ha raggiunto e ci
ha detto che Salvatore ormai era fuori pericolo e, meno male che l’avete
portato subito, qualche minuto in più avrebbe potuto essergli fatale. Ma quale
insetto l’ha punto, era pieno di neurotossine e gli ci vorrà del tempo prima di
smaltirle del tutto.
-
Una
farfalla.
-
Ma
che dite, non è possibile!
-
No,
era una farfalla.
-
Voi
avrete visto una farfalla che gli si è posata addosso, ma vi garantisco che chi
l’ha punto non era certo una farfalla. Domattina comunque potete venirlo a
trovare e starà già bene.
Detto questo il dottore se ne andò. Quando tornammo
alla base il professore ci stava aspettando con le ultime novità, già sapeva
tutto quello che era successo ed aveva pure parlato con l’Ospitale, il
Professore era l’unico di noi che da quando aveva abbandonato il look barbone
si divertiva ancora ad usare i cellulari e telefonava sempre a tutti.
-
Allora
ragazzi ho visto le vostre farfalle, sono innocue se ci comportiamo bene. Prima
cosa non sono farfalle, sembrano ma non sono. Assomigliano di più alle vespe e
alle api, hanno un nido e sicuramente una regina e sono molto intelligenti, di
un’intelligenza di gruppo. Salvatore ne ha catturata una e loro si sono
scagliate contro Salvatore. Appena la farfalla è stata liberata, tutto è
tornato normale. Non sono pericolose se non gli facciamo del male, divengono
mortali se devono difendersi, e sapete una cosa? Sono bellissime e voglio
studiarle a fondo.
E così ho scoperto queste meravigliose farfalle ed i
loro segreti sono cominciati ad affiorare, grazie agli studi del nostro
professore, ma ho osservato anche un’altra cosa che mi sembra interessante e ne
voglio parlare con lui.
Sì, voglio parlare col Professore dei cespugli
rotolanti, mi sono infatti accorta che si comportano in maniera strana,
rotolano anche quando non c’è il vento, o addirittura controvento. L’altro
giorno con la bici ne ho seguito uno anche quando è uscito dal sentiero ed il
cespuglio si comportava come se si fosse accorto che lo stavo seguendo.
Ha rotolato lentamente fra vari cumuli di materiali
eterogenei e forse di scarto, abbandonati in collinette ed è giunto in una zona
che era pavimentata con lastre di pietra, forse una piattaforma di carico della
grandezza d’una piazza del Villaggio ed era proprio ben lastricata, solo dei
ciuffi d’erba spuntavano tra qualche pietra e pietra, ed in questa piazza
rotolavano lentamente altri quattro cespugli.
Sono rimasta seduta ad osservarli ed avevo la netta
impressione che i cinque cespugli eseguissero una danza proprio per la mia
presenza, quasi a ringraziarmi d’essermi accorta di loro.
Intanto mi ero annotata il percorso su un foglio del
taccuino che mi porto sempre dietro. Lo so che non dovevo uscire dai sentieri
noti perché ero sola, ma questa mi era sembrata un’occasione unica, e poi il
cespuglio m’aveva condotto per un sentiero sicuro.
Dopo circa un’ora
che li osservavo nei loro movimenti, che tra l’altro erano ripetitivi
delle stesse figure geometriche ed ho appuntato anche le figurazioni, sono
risalita sulla bici per ritornare alla
base. A quel punto un cespuglio, forse quello che mi aveva accompagnato, s’è
mosso velocemente e si è messo a rotolare proprio davanti a me e mi ha guidato
sulla stessa via dell’andata fino al sentiero tracciato, poi accelerando è
sparito dietro ad un gruppo di ciminiere.
Sono Federica e lavoravo saltuariamente come commessa in un negozio di abbigliamento del Villaggio, adesso è circa un anno che sto all’opificio e devo confessare d’essermi fermata qui soprattutto perché mi sono innamorata del Professore, infatti passo molte delle mie notti con lui e spesso l’aiuto a rimettere in ordine il suo Airstream. Penso che un giorno o l’altro mi chiederà di trasferirmi da lui, e so che accetterò. Lasceremo magari il caravan per un alloggio più normale.
La vita in questo posto è comunque divertente ed
avventurosa e scorre abbastanza tranquilla anche se si avvertono mille pericoli
latenti dietro l’angolo. Siamo però molto cauti e sempre preparati ad ogni
evenienza. Anche da un punto di vista finanziario, tutto sembra andare per il
meglio e le nostre attività di recupero rendono assai. Troviamo un’infinità di
cose ed alcune non riusciamo proprio a comprendere cosa siano o a che cosa
siano servite, alcune sono funzionanti, altre no, ma riusciamo senza sforzo a
vendere tutto, abbiamo giù al Villaggio chi ci compra ogni cosa.
La base è oggi costituita da due edifici in muratura
a due piani che abbiamo ristrutturato e poi arredato. Io abito in un piccolo
appartamento, quasi un monolocale, piccolo ma accogliente. Il Professore è
sempre sul suo Airstream, gli altri due li usiamo come basi avanzate per
l’esplorazione, “un’astronave nel grande mondo selvaggio” così veniva definito
il caravan in un vecchio spot pubblicitario, e mai spot fu così azzeccato!
Stiamo facendo la cartografia dell’opificio, stiamo
bonificando le zone a noi vicine, chiudendo, almeno per ora, le zone che
riteniamo pericolose. Abbiamo anche trovato un gruppo di cavalli che vagavano
nell’opificio, li abbiamo catturati e si sono dimostrati estremamente docili e
domestici. Si sono fatti facilmente cavalcare
ed alcuni le adoperiamo per le escursioni, gli altri li abbiamo collocati
in un maneggio che abbiamo aperto in una zona sicura ai confini col Villaggio,
ed insegniamo, a pagamento, agli abitanti del Villaggio a cavalcare lungo i
sentieri che abbiamo appositamente aperto.
Anche a me piace molto cavalcare ed adoro i cavalli,
chi avrebbe mai detto che ne avrei visto uno? Mi piacciono talmente tanto che
spesso vado ad aiutare al maneggio e lì il lavoro non manca, abbiamo anche
assunto cinque giovani del Villaggio che sono stati ben felici d’aver
finalmente trovato un lavoro, anche se all’inizio la vicinanza dell’opificio li
rendeva nervosi: ma oggi cavalcano anche lungo i sentieri che abbiamo aperto
anche all’interno dell’area.
Oggi alla Base si sono viste le farfalle, le abbiamo notate svolazzare sopra le aiole fiorite e curiosare fin dentro le abitazioni. Queste farfalle sono veramente meravigliose nei loro sgargianti colori ed alcuni di noi, che le vedevano per la prima volta sono rimasti stupefatti ad osservare la loro grazia.
Anche Salvatore che ha con loro avuto una brutta esperienza, era tra coloro che le ammiravano e diceva agli altri “Non le toccate, che è meglio!”
Le farfalle, o quello che diavolo sono, il Professore dice che sono delle meravigliose api, sembra che comprendano quando noi le ammiriamo, ed allora si danno da fare per sembrare ancor più armoniose nelle loro danze ed ad evidenziare al meglio i loro colori.
Si comportano un po’ come i pavoni che sono nei giardini del Villaggio, che quando li guardi e se ne accorgono, sfoderano una ruota di penne meravigliosa e si “pavoneggiano” appunto, e sempre più, ecco le farfalle fanno proprio come loro.
Ma come erano giunte alla nostra base? Ci avevano seguiti? Avevano aperto un nido qui? Stavano bene con gli umani? Saranno ostili? O ci regaleranno il miele?
Domande che tutti ci siamo poste ed alle quali solo il tempo potrà dare le risposte.
Le attività della base oggi si sono un po’ rallentate a causa di questa piacevole novità ed eravamo tutti un po’ più felici nel mirare questi fiori svolazzanti. Ma ad un tratto, quasi a riportarci alla realtà, abbiamo avvertito una forte esplosione che non doveva esser molto lontana. La terra ha tremato per qualche secondo ed i vetri delle finestre si sono messi a vibrare.
L’esplosione veniva all’interno dell’opificio e ci ha ricordato la pericolosità del posto, un avvertimento a non abbassare mai la guardia ed a esser sempre pronti a contrastare le sorprese più spiacevoli.
Questo è un luogo che è stato violentato dall’uomo nei tempi passatati nella peggiore delle maniere, un luogo che oggi potrebbe anche vendicarsi su di noi che invece vogliamo ricostituirlo nella sua bellezza.
Sappiamo che la nostra impresa è ardua, il luogo è immenso, si dice che sia vasto quanto l’intero continente e noi siamo poca cosa al confronto. Ma saremo sempre di più e sempre più tenaci nel recupero. Ormai l’uomo, noi almeno, non abbiamo più paura di questa foresta stregata, la percorriamo, la vogliamo conoscere, addirittura l’amiamo. Gli altri non osano neppure nominarla, ma non importa pian piano rientreranno in possesso dei luoghi risanati e questi sono destinati ad accrescersi giorno dopo giorno.
La foresta stregata ha pure i suoi orchi, non siamo riusciti a vederli, ma abbiamo visto le loro tracce, le loro devastazioni, le loro uccisioni, riusciremo a dominare anch’essi.
Vi sono pure i luoghi stregati: c’è una stazione ove transitano i treni dei morti diretti verso la loro ultima destinazione. Sapremo rispettare questi luoghi e da stregati li trasformeremo il luoghi santi e di rispetto.
Nella cupola
d’argento
- Tilde! Che sorpresa! Come mai sei qui?
- Ero venuta a vedere cosa combinavi, il computer mi dice che eri molto occupata, ma si dev’essere sbagliato, è un’ora che t’osservo e non ti sei mai mossa dalla veranda e vedo che seguiti a sonnecchiare.
- Sonnecchiare? Veramente stavo elaborando piani d’intreccio all’interno delle aree di schiuma quantica.
- Caspita! Che compiti elevati! Pensavo tu fossi venuta qui per bonificare una discarica.
- Sto facendo anche quello, ma solo per quello che riguarda la zona qui attorno, lo sai che amo muovermi tra cose belle ed armoniose.
- E perché hai scelto una discarica? Potevi scegliere un intero pianeta fiorito od uno ricoperto di tappeti di capelli.
- Le cose semplici non mi soddisfano. E Barbi cosa fa? L’hai lasciata sola?
- Barbi è cresciuta e sa badare a se stessa. Anche tu sei cresciuta, vedo, ma non comprendo lo stesso questa scelta.
- E la tua dimora dove si trova ora?
- In mezzo al mare, su un’isola di spiagge e palme, ed albatri e tartarughe giganti.
- Ed io qui invece, in un opificio abbandonato da centinaia d’anni: ma è reale o una simulazione, dimmi Tilde tu che sei più esperta di me.
- Io e te siamo reali o siamo simulazioni? Tutto quello che è, è reale, dovresti ormai averlo capito da tempo.
- Avevo bisogno di assicurazioni, ma tu non sei in grado di darmele. Qui tutto sembra estremamente reale, questo posto è abitato da mostri e demoni, ma vi sono anche delle fratture temporali che non riesco a seguire. E meno male c’è un gruppo di persone che stanno facendo ordine, sono tutti molto giovani, a parte un saggio che chiamano il Professore. E’ buffo, loro pensano che anch’io stia bonificando la zona, e che sia qui per questo, e poi lo sai come mi chiamano?
- Dimmelo!
- Mi chiamano la Dea!
- Addirittura! Quasi quasi resto con te, così le Dee saranno due, e poi tanto Barbi sa stare anche da sola, e poi non è sola, c’è lo stalliere che è rimasto con lei.
- E potremo divertirci anche a bonificare un po’ di roba, tanto per farli contenti.
- E’ un’idea!
- Vi sono anche dei semiumani, delle tribù all’interno, ma tutti sono disturbati mentalmente, da evitare, e poi piante ed animali mutanti che convivono con le specie naturali.
- Un posticino per non annoiarsi: paradiso ed inferno assieme.
- Proprio così, c’è una cosa buffa, delle bellissime farfalle che hanno preso a stare coi coloni, io li chiamo così e penso sia il vocabolo adatto per definirli. Ma ti dicevo delle farfalle, queste bellissime sono sempre dietro a loro, però non sono vere farfalle, sono più simili alle api e alle vespe, conducono una vita di gruppo e forse hanno un’intelligenza collettiva, sembra proprio che comprendano gli umani e tra loro si sta creando una specie di simbiosi. Vorrei averle anche qui attorno alla cupola, ma trai miei fiori non le ho mai viste, ci sono solo molti insetti e farfalle normali.
- Dovresti invitare i coloni qui da te, forse verranno anche le farfalle.
- E’un’idea! Penso che lo farò. Ma giochiamo?
- Sì, a Tutto? Sai che sento la mancanza dei giochi con te?
- Ma aspetta: l’ultima volta che abbiamo giocato a Tutto, dopo siamo passati a Storia, e la storia ci ha portato ad oggi. Ma allora la Storia non era una fantasia, era una cosa reale.
- Perché, secondo te anche il gioco del Tutto non è reale?
- Sì lo è.
- Comincio io: i cuori sono duri, il più delle volte non si spezzano.
- Stephen King! Chicago sorgeva sulla sponda di uno dei grandi laghi.
- Il lago Michigan. Quando avevamo tutte le risposte ci hanno cambiato le domande.
- Galeano! Ma a punteggio come stiamo?
- Niente punteggio, solo un colpo per uno, tocca a te.
- Lassù tra quelle aride e assolate pietraie si svolge uno strano mercato, puoi barattarvi il vortice della vita per una beatitudine senza confini.
- Milarepa. Il maschio del fillobate è noto per le amorevoli cure che riserva ai suoi piccoli:come si comporta?
- Non vale, Tutto è limitato alle cose della Terra, tu dove sei andata a trovare il fillobate?
- Nell’America centromeridionale! Ed è un ranocchio, quello che si carica i girini sul dorso e li porta a spasso.
- Quanti batteri possono stare in una goccia di liquido?
- Facciamo cinquanta milioni?
- OK!
- Quale città fondò il re Mida?
- Ancyra, poi fu chiamata Ankara. Chi diceva sempre “far economie fino all’osso”?
- Quintino Sella. Che significava SS?
- Troppo facile: Schutz Staffeln. E perché gli atleti si depilavano le gambe?
- Per potersi sottoporre tranquillamente ai massaggi. Perché i pesci negli acquari non urtano mai contro il vetro, eppure non lo vedono.
- Perché sono dotati di organi detti “della linea laterale” che permettono di percepire le vibrazioni che si hanno nell’acqua, pertanto….
- Ferma! Basta così.
- Quale poeta quando frequentava il Trinity College di Cambridge era solito andarsene a spasso con un orso ammaestrato?
- George Byron. Se dovevano affrontare in viaggio per mare non si tagliavano né unghie né capelli, con le credenza che questo avrebbe evitato i naufragi.
- Gli antichi romani. La musica è la tua esperienza, i tuoi pensieri, la tua comprensione delle cose.
- Charlie Parker. Uno lo crocifissero e l’altro impacchettava di tutto.
- Cristo e Christo. L’ideatore della mail art.
- Ray Johnson. Come si chiamavano i primi abitanti di Rapa Nui?
- L’isola di Pasqua?
- Sì gli abitanti di quell’isola.
- Aspetta che ora mi viene in mente……..
-
Era una esplorazione di routine condotta dal Professore ed alcuni studenti che lo seguivano nell’Università riaperta. Stavano tutti assieme facendo la planimetria di una serie di tubi che s’intersecavano con alte ciminiere, quando si trovarono davanti ad una cisterna rotonda, molto ampia che affiorava dal terreno non più di un metro.
La cisterna era costruita di un materiale molto
simile al cemento armato ed una parte di essa si era a lato sgretolata, sì che
era possibile penetrare all’interno. Il Professore e due studenti entrarono con
tutte le precauzioni del caso e subito si accorsero che all’interno vi era una
strana luminescenza che dava sul violetto. Piante a foglie larghe, forse un
qualche tipo di felce ricoprivano l’intera cisterna. Con precauzione una foglia
fu raccolta e posta in un apposito contenitore. La fluorescenza veniva proprio
dalle felci ed il loro colore alla luce normale era azzurro. Alle pareti della
cisterna videro ad un tratto delle stelle anch’esse fluorescenti che lentamente
si muovevano. Rimasero stupefatti quando le osservarono da vicino: erano stelle
a cinque o sette punte, delle dimensioni d’un pugno, di color azzurro,
traslucide, trasparenti, ad una prima occhiata ricordavano le stelle marine.
Non vi doveva però essere alcuna somiglianza biologica con esse, perché in
effetti, a parte la simmetria radiale, si muovevano e si comportavano come le
lumache e lasciavano pure al loro passaggio una scia di bava.
La bava fu analizzata sul posto e risultò
estremamente acida, anzi pericolosamente acida, sì che riuscì a corrodere anche
il supporto vetroso su cui era stata raccolta. Le stelle furono osservate a
lungo e le loro capacità caustiche risultarono estremamente rilevanti, fu
notato che si cibavano delle felci e che se si avvicinavano troppo alla luce
esterna morivano, sciogliendosi in un liquido acido.
Fu deciso che questi due generi mutanti richiedevano
ulteriori studi ed approfondimenti, ma l’intera zona della cisterna fu sbarrata
come potenzialmente pericolosa e segnalata sulle carte come interdetta.
La cartografia della zona fu ripresa e le ciminiere
ed i tubi furono lasciati alla prossima squadra di demolizione che col
disgregatore molecolare l’avrebbero ridotti in polvere. Il disgregatore
molecolare era infatti un’altra delle apparecchiature sperimentali che erano
state portate dall’Università nell’Opificio e che venivano usate dagli studenti
per la bonifica del posto.
Una squadra che era in avanscoperta con l’airstream,
formata da cinque studenti non aveva più dato cenni di vita da tre giorni. Fu
allora inviato un gruppo di ricerca composto da Francois, Carlos e Felicita che
a cavallo partirono spediti. Avevano con loro solo acqua, qualche tavoletta
energetica ed armi leggere. Quando arrivarono nel luogo ove il caravan avrebbe
dovuto trovarsi, al suo posto trovarono solo un grande solco, come se qualcuno
avesse spostato l’automezzo trascinandolo. Seguirono il solco che zigzagava tra
cumuli di detriti indecifrabili e giunsero ad un avvallamento ove ciò che
restava del caravan era davanti ai loro occhi. Il mezzo era stato come
strappato un tanti pezzi, piccoli e grandi, come se fosse stato di carta. Tutto
era sminuzzato, ma dei cinque studenti nessuna traccia. Francois, Carlos e
Felicita rimasero allibiti davanti allo spettacolo, smontarono da cavallo e perlustrarono
la zona cosparsa di rottami. Dopo aver a lungo cercato, anche nei dintorni,
chiamato ad alta voce, decisero di tornare alla Base e di dare la notizia agli
altri. L’Opificio non era per nulla domato, mille pericoli potevano nascondersi
dietro ogni angolo, mai si doveva abbassare la guardia. Qualcuno o qualcosa,
d’estrema potenza, aveva ucciso o rapito i cinque studenti.
Francois era da poco tornato alla Base ed in cucina stava bevendo un caffè assieme a Rezia quando vide entrare nella stanza una lucciola. La guardò attentamente, non era un insetto come aveva prima pensato, ma solo la luce intermittente senza corpo. Un tempo si usavano e-mail di questo tipo ed uno poteva leggerle col proprio impianto neurale, ma questa era una tecnica abbandonata da tempo che si vedeva solo negli olofilm e si leggeva nei racconti. Francois allora prese uno scanner dal suo PC e lesse l’e-mail. Sullo schermo apparve un filmato, era l’immagine della Dea che invitava lui e Rezia a prendere un tè nella cupola. L’invito era per oggi.
La convocazione, anche se per un tè era una vera sorpresa, Francois mai e poi mai si sarebbe aspettato una cosa del genere. La Dea sembrava così aliena, così poco propensa anche solo a considerare le altre persone, anzi sembrava proprio non voler avere alcun contatto con loro. Rezia e Francois si vestirono con abiti adatti a cavalcare e salirono sui loro destrieri. Giunsero al trotto in vista della cupola e videro la Dea assieme ad un’altra bellissima donna, o dea, o cosa diavolo fossero.
Anche l’altra era abbigliata come la Dea con quella muta trasparente incollata alla pelle che le faceva sembrare nude e liquide e che esaltava ancor di più in maniera provocante le loro forme.
Si avvicinarono alla cupola sempre cavalcando e questa volta la barriera energetica non si manifestò con la sua caratteristica respingente.
Si fermarono davanti ad un’aiola e stavano legando i cavalli ad una staccionata quando le due dee vennero verso di loro sorridenti.
- Ben arrivati!
- Grazie per l’invito, io sono Francois e questa è Rezia.
- Conosco già i vostri nomi, io sono Flavia anche se mi chiamate la Dea e ne sono lusingata. Questa è Tilde, non l’avete mai vista perché è arrivata solo ieri qui a trovarmi: io discendo da lei.
- E’ un piacere conoscervi ed un onore aver ricevuto un vostro invito. Anche noi avremmo voluto da tempo invitarvi, ma la vostra barriera energetica ci ha sempre tenuti a distanza.
- Sapete, in questo posto le precauzioni non sono mai troppe, ma accomodatevi con noi in veranda, l’acqua sta già bollendo ed il tè che getteremo è senz’altro il migliore del pianeta.
- Grazie.
- Le farfalle!
- Cosa?
- Le farfalle vi hanno seguito ed ora sono sopra i nostri fiori.
- Sì, ci seguono sempre, da quando le abbiamo scoperte, ma se non siete ostili con loro esse sono innocue e ci allietano con la loro presenza e con le evoluzioni.
- Le volevamo anche noi qui, ma non sono mai venute, questa è la prima volta.
- Ora ci sono, semprechè non tornino indietro con noi. Ma non credo.
Il tè fu gettato nell’acqua del bollitore e poco dopo servito accompagnato da vassoi di piccolissimi ma squisiti dolci. Francois osservava stupefatto le due donne, così belle e con quella guaina trasparente che metteva in risalto le loro nudità. Stava proprio osservando con la massima attenzione il sesso di Tilde e lei se n’accorse e per nulla imbarazzata gli sorrise aprendo ancor di più le sue gambe per farlo osservare meglio.
Rezia si accorse di questo ma non disse nulla, intanto Flava osservava con la massima attenzione le farfalle mentre sorseggiava il tè. Rezia con curiosità prese in mano un oggetto che sembrava un libro rilegato in pelle, ma sulla sua superficie, al contatto cominciarono a scorrere immagini in movimento.
All’interno della cupola l’atmosfera era quanto mai rilassata e Francois solo allora s’accorse d’una dolce melodia che sembrava pervadere tutto l’ambiente. Poi tutto si fece confuso e la realtà sembrò farsi sempre più liquida, più morbida e meno concreta. C’era come un senso di fusione generalizzato e le menti dei presenti sembravano amalgamarsi tra loro ed una conversazione con scambio d’immagini e di sensazioni ebbe inizio. Tilde, Flavia ed un’intelligenza diffusa, forse artificiale stavano comunicando con loro senza parole ed adesso senza neppure immagini ma solo con i concetti. Era come se le identità fossero divenute solo delle strutture culturali ed una volta cancellate quelle sorgeva un pensiero comune che comprendeva le conoscenze dei presenti, e non solo di quelli.
Solo dopo un certo lasso di tempo l’effetto svanì e Rezia e Francois se ne tornarono alla Base riflettendo sull’esperienza avuta.
Francois rimuginava su ciò che aveva appreso quel giorno anche se non capiva come fossero tutti entrati in quel gioco: droghe? neuroinduttori? telepatia?
Molte cose comunque gli stavano frullando per la testa, cose apprese proprio in quell’esperienza: le due donne erano in realtà un’identità sola antica e potente, i loro sogni, i loro giochi erano anche la realtà. Loro mutavano a piacere i piani dell’esistente. Ma questo era vero o avevano voluto farglielo credere?
Erano in parte anche umane e li avrebbero aiutati nella loro opera di conoscenza dei luoghi e di bonifica. C’era poi uno scopo per giustificare la presenza di Flavia nell’Opificio, ma neppure lei sapeva qual’era, ed era lì apposta per scoprirlo. Man mano che analizzava l’esperienza avuta e che i ricordi riaffioravano, Francois si rese conto che gli avevano indicato due zone precise dell’Opificio, una da evitare accuratamente ed un’altra ove invece avrebbero fatto dei ritrovamenti per loro utilissimi. Ma ripensando al pomeriggio trascorso nella cupola Francois ad un tratto si rese conto, con meraviglia di qual’era stato il motivo autentico dell’invito. Le farfalle! Tilde e Flavia volevano le belle farfalle anche sulle loro aiole. Tutto il resto erta stato fatto per ringraziarli d’aver portato le farfalle!
Rezia era ancora confusa e perplessa dall’incontro, l’accoglienza era stata cordiale, il tè ottimo, la commistione dei pensieri era forse dovuta ad una droga, nel tè? In ogni caso loro avevano dato dei buoni consigli ed avevano dimostrato d’esser amiche. Tilde forse un po’ troppo con Francois, ma si rese conto di non essere minimamente gelosa. Rezia si ripromise che sarebbe tornata quanto prima a trovarle, magari questa volta da sola. Ed era ancora perplessa per come all’improvviso s’era ritrovata con Francois a cavalcare sulla strada del ritorno.
Tilde e Flavia stavano ancora osservando il volo delle farfalle che proseguiva anche al tramonto e che adesso non erano solo sulle aiole ma anche sopra il prato, una addirittura era penetrata all’interno della cupola e dopo aver svolazzato per l'ambiente si era adesso posata su un larga foglia verde d’una pianta ornamentale che stava accanto ad un tavolo di cristallo.
Avevano intanto riattivato la barriera energetica, ma le farfalle come altri animali che loro avevano selezionato potevano entrare ed uscire a loro piacimento.
Flavia ripensava anche al messaggio sessuale che inconsciamente Francois le aveva trasmesso, era stato molto piacevole e ci avrebbe in seguito ripensato con calma.
Francois intanto si stava rigirando nel suo letto e non riusciva a togliersi di mente il pomeriggio trascorso. Si accorse che i due percorsi per raggiungere le zone segnalate, quella dei ritrovamenti importanti e quella da evitare ad ogni costo, erano ben impresse nella sua memoria. L’indomani per prima cosa avrebbe al computer steso la cartografia e poi avrebbe pensato ad organizzare l’esplorazione. Raggiungere la zona dei ritrovamenti avrebbe dovuto essere abbastanza facile poiché distava solo una diecina di chilometri da dove erano gia giunti i controlli, era cioè all’incirca a trenta chilometri dalla Base. Più problematico era giungere nella zona da evitare, poiché dai primi calcoli a memoria, era all’incirca lontana duecento chilometri dalla zona controllata, ma Francois era sicuro che avrebbe trovato la maniera di giungere fin lì: le zone proibite avevano sempre avuto un fascino particolare per lui. Ma il sonno tardava, aveva anche un’altra sensazione, quasi una certezza, le dee avevano dato un “dono” sia a lui sia a Rezia, ma non riusciva a ricordare cosa: una strana facoltà mentale?
LA ZONA DEI
RITROVAMENTI
A cavallo partirono in sei per raggiungere il luogo indicato del ritrovamento. Era ovviamente il Professore, che ormai aveva ritrovato tutto il suo smalto accademico, dopo gli anni sabbatici da barbone, a guidare la spedizione e s’era portato dietro tre dei suoi nuovi studenti, assieme a loro c’erano Francois e Carlos.
Rezia e Felicita avevano alcune cose urgenti, da donne, da sbrigare alla base, ma sarebbero partite dopo di loro, tanto anche Rezia aveva memorizzato il tragitto e per maggior sicurezza avevano con loro la cartografia stesa da Francois.
Tutti avevano posanti zaini stracolmi di strumentazioni ed armi a tracolla, il Professore non voleva, giustamente, lasciare nulla al caso ed ogni nuovo tratto veniva attentamente scannerizzato. Ormai n’erano tutti coscienti, nell’Opificio occorreva usare la massima prudenza, chi trascurava la sicurezza, in questo posto non sarebbe durato a lungo: anche altre trappole col filo monomolecolare erano state scoperte a custodia di un magazzino, che era tra l’altro completamente vuoto e per puro caso nessuno s’era fatto male.
Il percorso indicato dalle dee si dimostrò in ogni modo sicuro e quando tutti arrivarono si resero conto che erano giunti ad un ennesimo anonimo hangar uguale a mille altri. Non c’era però alcuna apertura evidente e tutta la squadra dovette a lungo scandagliare l’intero perimetro per trovare un punto d’accesso. Ad occhio nudo non si scorgeva nulla, il muro perimetrale non presentava niente di visibile, ma una porta c’era e gli strumenti la segnalarono. Dopo vari inutili tentativi d’effrazione si decise d’usare un raggio laser: il treppiede fu montato, le batterie collegate ed in breve tempo la parete fu tagliata seguendo le linee del portale. Per qualche minuto, eseguito il taglio, non successe niente, poi all’improvviso con un sordo tonfo la sezione tagliata cadde all’interno alzando una nube di polvere e restò per terra senza spezzarsi.
Gli strumenti scandagliarono l’interno e furono scoperti altri cinque piani nel sottosuolo.
Rezia e Felicita erano giunte proprio nel momento in cui s’iniziò l’esplorazione dell’hangar, che era stivato d’oggetti. E gli oggetti risultarono tutti uguali: una bolla di plastica trasparente con quattro sedili all’interno, due davanti e due dietro, muniti di quattro ruote. I colori delle bolle e delle carrozzerie variavano e sembrava non ce ne fossero due uguali. In un angolo di ogni bolla trasparente c’era ovviamente il solito logo: AZULH®. Con la massima attenzione una bolla fu portata all’esterno e risultò sufficientemente semplice far sollevare la cupola ed accedere ai quattro sedili.
Quando il sedile anteriore di destra fu occupato, s’era seduto un allievo del professore, si materializzò una console dai comandi semplicissimi, solo cinque pulsanti. Senza esitazione lo studente mise le dita della mano destra sui cinque pulsanti schiacciandoli, ed il mezzo si mosse. Prima lentamente, poi accelerò, curvò, tornò indietro e si fermò davanti al Professore nello stesso punto da cui era partito.
- Questo sì che è un ritrovamento interessante!
Esclamò il Professore e dopo aver fatto scendere l’occupante, munito dei suoi strumenti cominciò ad armeggiare sotto la bolla.
- Noi intanto controlliamo la sicurezza e poi gli altri piani.
- Contatele anche le bolle!
Così tutti si misero al lavoro, queste bolle avrebbero potuto esser vendute agli abitanti del Villaggio, ed a caro prezzo, visto che non possedevano grandi mezzi di trasporto, se non qualche antica auto, dei camion, le biciclette e qualche cavallo. Intanto il Professore aiutato da Carlos aveva fatto un’accurata analisi della bolla, ci chiamarono tutti e ci comunicarono i risultati.
- E’ ovviamente un mezzo di trasporto per quattro persone, può raggiungere una velocità di novanta chilometri l’ora, funziona con l’antigravità, non mi chiedete come perché non lo so ancora, ma le sue riserve d’energia sono illimitate, in parole povere, finchè non si rompe, cammina. Per ora non credo che nessuno saprebbe ripararlo se si guasta, parlo del “motore”, non delle gomme, della trasmissione o della console.
Tutti applaudirono e Francois aggiunse:
- Ce ne sono a migliaia di questi cosi sia qui nell’hangar che nei tre piani sotterranei. Gli altri due piani invece hanno delle bolle stivate un po’ diverse. Aspettatemi tutti qui e se sono quello che penso vi darò una sorpresa alla grande.
Scese lungo una rampa molto ampia simile a quella degli antichi parcheggi sotterranei e che per ora era stata un po’ illuminata con numerosi punti luce che avevano tolto dagli zaini.
- Non preoccupatevi ed aspettatemi tutti qui, senza muovervi!
Gridò Francois mentre di corsa scendeva. L’attesa si prolungò per una diecina di minuti, e già qualcuno voleva scendere per vedere cosa combinasse, ma videro risalire dalla rampa lentamente un’altra bolla verde chiaro con dentro Francois alla guida. Quando la bolla giunse all’altezza del pavimento dell’hangar, tutti ebbero una grande sorpresa. La bolla non poggiava a terra sulle quattro ruote, ma se ne stava sospesa nell’aria, poi si sollevò ulteriormente fino ad arrivare ad un paio di metri e silenziosamente iniziò a svolazzare sopra le altre bolle e sopra le teste dei coloni per poi tornare rasente al suolo ed infilare l’uscita. Si fermò sollevata da terra d’una quindicina di centimetri parcheggiata accanto all’altra bolla che si trovava all’esterno.
Tutti erano rimasti a bocca aperta, ma considerando che era l’antigravità a far muovere le bolle, tutto questo c’era da aspettarselo.
- Incedibile! disse Francois, e ce ne sono giù a migliaia stivate negli ultimi due piani. Coi cavalli avevamo messo in pensione le biciclette, ed ora con le bolle faremo riposare i nostri cavalli!
Gli sviluppi della scoperta furono rilevanti, tutto si semplificò nell’Opificio e la vendita dei mezzi, per ora solo quelli a quattro ruote, agli abitanti del Villaggio, fu ridotta a pochi esemplari ed a prezzi altissimi.
Dodici studenti dell’Università si trasferirono nell’hangar poiché erano stati scoperti altri piani adiacenti a quelli interrati, stracolmi di macchinari. Si pensava che fossero linee di costruzione delle bolle e gli studi per attivarle si svolgevano a pieno ritmo.
Questi macchinari sicuramente servivano per costruire i pezzi delle bolle e poi assemblarle, o almeno di certo per costruire alcune delle parti, e poi senz’altro per l’assemblaggio.
L’hangar in breve divenne una facoltà distaccata dell’Università, pericoli non ne furono trovati a parte una stanza blindata che resistette ad ogni tentativo d’apertura, respingendo ogni tipo di raggio col quale veniva colpita – tre studenti finirono all’ospedale con fratture ed ustioni, ma nessuno di loro fu considerato grave. La stanza era sicuramente una cassaforte e poteva contenere valori o documenti, o forse la memoria centrale di tutti i computer di quella fabbrica, oppure avrebbe potuto contenere anche qualcosa di estremamente pericoloso, decisero comunque che finchè non fossero stati compiuti ulteriori studi non vi sarebbero stati altri tentativi per aprire la cassaforte.
IL NEONATO
Fu una sorpresa che nessuno s’aspettava: quella notte tutti gli allarmi avevano suonato ed i cani della Base sembravano impazziti. Vi era stata un’intrusione non autorizzata nell’area, esattamente alle 3.02 e vari estranei si erano tenuti nel perimetro protetto fino alle 3.20, poi erano spariti senza lasciare tracce evidenti. Le telecamere avevano registrato solo delle ombre, delle vaghe figure umane che s’erano mosse furtive nell’ombra utilizzando tutti gli espedienti per non essere riprese. Ove si erano verificate le intrusioni, le luci s’erano infatti spente e le telecamere al buio avevano ripreso ben poco. Le luci s’erano poi riaccese dopo il passaggio come se gli intrusi avessero quelli “spengini” di cui parla la letteratura fantastica per ragazzi. Le poche telecamere ad infrarossi erano state anch’esse volutamente disturbate da fonti anormali di calore.
Tirando le somme si può solo dire che per diciotto minuti quella notte, almeno otto intrusi, sicuramente umanoidi, s’erano aggirati indisturbati all’interno della sorvegliatissima Base. Ma la cosa più evidente e sconcertante era che gli otto avevano lasciato qualcosa all’interno della Base stessa, proprio davanti alla porta di una delle abitazioni nel cuore preciso dell’avamposto: una bellissima bambina di pochi mesi avvolta in una coperta di lana verde. La bambina era perfettamente normale coi capelli color biondo e sorridente: subì un primo esame all’Università e risultò normalissima, anche l’Ospedale non riscontrò alcuna anomalia. Il Professore e Federica che adesso abitavano assieme un po’ nell’airstream spinta da una bolla a ruote ed un po’ in un alloggio alla Base, decisero d’adottarla e di crescerla: le dettero il nome di Tabitha.
Alla base c’erano già due maschietti di pochi mesi figli di due studentesse, ed una bimba di tre anni che aveva seguito il padre. Una nuova generazione di coloni si stava formando.
Ma il mistero della bimba rimase, chi l’aveva portata? Uomini o umanoidi che provenivano dall’interno dell’Opificio. Poteva esser un cavallo di Troia?
Francois chiese anche alle dee se sapevano da dove provenisse e loro dissero che ad una trentina di chilometri dalle zone esplorate c’era una tribù di mutanti, nomadi che provenivano dall’interno, forse discendenti d’alcuni operai rimasti intrappolati all’interno: con ogni probabilità la bambina era nata “normale” e loro l’avevano riportata a quelli della sua specie.
Questa
spiegazione risolse parecchie delle domande, ma ne pose di nuove sul patrimonio
genetico della bambine: ma ogni analisi aveva dato risultato favorevole.