AZULH®

(Il libro dell’Opificio)

 

credo di sapere cosa

si prova ad essere Dio

(Pablo Picasso)

TILDE E FLAVIA

 

-         Tilde, ho voglia di giocare!

-         Flavia, non rompere, ho da eseguire dei controlli importanti.

-         Che fai? Non sai più dividerti? Forse stai invecchiando.

-         Non stiamo invecchiando, lo sai benissimo, stiamo solo crescendo, ed io lo sto facendo più in fretta e più seriamente di te.

-         Questo poi è tutto da dimostrare, e sai benissimo che il gioco è la parte più importante dell’apprendimento.

-         E va bene, piccola rottura, giochiamo pure, qual è il gioco che vuoi fare con me oggi?

-         Giochiamo a Tutto, senza regole, senza limiti.

-         Va bene, spara!

-         Cloto, Lachesi, Atropo, che mi dici di loro?

-         Divinità greche, i romani le chiamavano le Parche.

-         Non vale l’hai letto sui banchi memoria.

-         Non è vero!

-         Erinni?

-         Figlie della notte, dee della vendetta, chiamate Furie dai romani. I greci le conoscevano anche come Eumenidi ed erano in questa forma le protettrici dell’ordine delle cose, vivevano nel Tartaro ove punivano le colpe degli uomini. Aletto o “senza riposo”, Megera o “nemica”, Tisifone o “punitrice dell’assassino”. Erano nere se sdegnate, bianche se placate, avevano per compagni il Terrore, il Pallore, la Rabbia e la Morte.

-         Brava, vedo che stai imparando, ma Erinni non era anche un toro?

-         Sì in Stephen King, era un uomo con la maschera di torro…ma poi diviene un toro.

-         Punto tuo, non c’è che dire. Tocca a te.

-         L’italiano è un popolo straordinario, mi piacerebbe che fosse un popolo normale.

-         Lo so, è su una vignetta d’un umorista del XX secolo…Altan!

-         Questa però era facile, se vuoi il punto devi rispondere anche ad un’altra facile: ma lo sai che c’hai un bel sito? Te c’hanno mai ciccato sopra?

-         Stesso secolo, stessa nazione, umorista anche lui, ma questa volta cinema: Verdone.

-         Brava!! Uno a uno ora tocca a te.

-         Non devi scalare una montagna, ma la tua stessa mente; crea il tuo nascondiglio nell’ignoto.

-         Troppo facile: Shido Munan!

-         Ed il punto non lo prendi, me ne sono accorta che avevi una porta aperta sul database, perciò chiudila, non barare più, e niente punto.

-         Che palle questo giochino, non si può neanche sbirciare in giro.

-         Tocca sempre a me: l’io esiste anche se non riuscite ad identificarlo.

-         Dalai Lama!

-         E tanto ce n’è stato uno solo! Sarebbe come dire: Papa! Niente punto, tocca ancora a me. Il mandala non si lascia iscrivere nel tempo perché tende ad attirarci nel centro, luogo in cui lo spazio ed il tempo cessano d’esistere.

-         Non lo so, anche se sono pienamente d’accordo.

-         Non mi dire che tocca a me un’altra volta: guarda che se non indovini perdi l’unico punto che hai.  Colui che ha la vera conoscenza non si preoccupa del tempo, perché per lui il tempo non esiste.

-         Questo è Rumi!!

-         Finalmente, ma il punto non lo guadagni, e neppure lo perdi, OK?

-         Sei tu che fai le regole, ma ora tocca a me: E’ un errore considerare puramente politico quello che noi facciamo.

-         Lo so, è Adolfino!

-         Adolfino?

-         Sì, Adolfo Hitler!

-         Alla faccia! Ma c’hai colto, 2 a 1, palla a te.

-         Il denaro è segno di povertà.

-         Ma sei sicura che l’abbia detto un umano?

-         Sicurissima.

-         Non lo so, posso guardare in memoria?

-         Sì, ma te lo dico anch’io, Jain M.Banks, era uno scrittore. Tocca sempre a me: Se l’occhio non s’esercita non vede – pelle che non tocca, non sa – se l’uomo non immagina, si spegne.

-         Danilo Dolci.

-         Giusto.

-         2 a 2 ed ora tocca a me. Vedrete, farò rumore più da morto che da vivo.

-         Padre Pio! – 3 a 2! E dimmi questa: il mondo vuol essere imbrogliato, certo – diventa veramente cattivo se non lo fai.

-         W.Serner! che credevi che fossi handicappata? E siamo 3 a 3, ed ora dimmi: Spesso mi definiscono un genio. Una volta ci ho anche creduto e per dormire ho cercato di rientrare nel mio abat-jour.

-         Questa non vale, è troppo stupida!

-         Hai ragione, comunque era Antonio Ricci. Riformulo: Serve un dito per indicare la luna, ma non ci si deve più preoccupare del dito quando si è individuata la luna.

-         3 a 3 è Frank Capra! E rispondi: tutto quello che non è osservato direttamente tende a persistere.

-         Non lo so.

-         Neppure io me lo ricordo.

-         E allora perché me l’hai chiesto?

-         Se lo sapevi, lo ricordavi pure a me.

-         Restiamo allora 3 a 3 e proseguo io: Trascendenza! Trascendenza! Noi danzeremo una folle cadenza.

-         E’ Jack Kerouac ed è una poesia, se non sbaglio nel Dr.Sax.

-         Non sbagli, non sbagli, 4 a 3.

-         Mescola l’oro disciolto! – Stornella col pianto – Così scroscia la pioggia – Da tutta la celeste fantasia –

-         Kerouac anche questo, siamo 4 a 4.  Tocca a me, un altro paio di colpi e poi cambiamo, tanto si pareggia sempre siamo troppo brave - Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita d’una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…un’automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia… è più bella della Vittoria di Samotracia.

-         Ma è Marinetti! Dal manifesto del futurismo! Questa era una domanda offensiva, come potevo non saperla?  - 5 a 4 e rispondi: Un’opera è tanto più notevole quanto meno la si comprende. Quanto meno è comprensibile, tanto più è giusta. Sì è vero, per l’arte è la cosa migliore. L’arte non è fatta per essere compresa. Solo così emerge propriamente il valore ed il compito dell’arte. Perché di cose comprensibili ce n’è abbastanza e naturalmente anche quelle sono importanti. Ma per l’arte è molto meglio suscitare negli uomini una forza d’immaginazione e d’intuizione che magari vada anche oltre.

-         Facilissimo per me: Joseph Beuys. E siamo 5 a 5, facciamo l’ultimo: A livello macroscopico subatomico la struttura dello spazio-tempo è irregolare, non è liscia ed uniforme, bensì turbolenta e schiumosa. E poiché ciò accade a livello quantico si parla di “quantum foam” ossia di schiuma quantica.

-         E’ Crichton, e cosa sono i “cani lunghi”?

-         Conosco gli hot dog, i cani caldi, ma i cani lunghi non so cosa siano.

-         Mi sono sbagliata, volevo chiedere i “maiali lunghi”.

-         Li cita Burroughs, ma li ha ripresi da Dylan Tomas e sono gli umani cucinati.

-         Dice che il sapore sia simile a quello del maiale.

-         E non solo il sapore.

-         Ma noi siamo la quintessenza del sapere umano, due Pico della Mirandola del trentesimo secolo.

-         Due mucchi di neurochip e plasma mandate a fanculo vorrai dire.

-         Quando si parla di queste cose mi spavento, abbiamo una missione, noi rappresentiamo l’uomo.

-         Ma non lo siamo, noi siamo molto di più.

-         Ho paura: raccontami una storia.

-         Ma stiamo sempre giocando a Tutto?

-         Forse, dai parti con la storia.

-         No, misceliamo le memorie autonome, buttiamo giù un incipit e la storia ce la racconteranno loro.

-         Fatto, ho buttato un argomento a caso, no lo conosco neppure io.

-         Ascoltiamo e viviamo assieme la storia.

 

 

LA STORIA

 

Sono Flavia e con mamma Tilde ci siamo trasferite in una fitta jungla, eravamo infatti annoiate, ed anche un po’ seccate dalla metropoli che si stendeva sotto di noi: troppo caos, troppa confusione.

Anche se devo dire che il nostro appartamento era veramente invidiabile, si trattava infatti di una villa settecentesca circondata da un grande prato con macchie d’alberi secolari su due lati. La tenuta era rettangolare ed ogni lato era lungo due ore di cammino a passo regolare. Finiva ovviamente con una ringhiera metallica e da quella si scorgeva la metropoli.

La casa ed il parco sorgevano infatti sull’alta cima di una torre, anzi della torre più alta della città.

Il panorama era fantastico soprattutto la notte quando le torri erano illuminate e si scorgevano in basso i flussi del traffico terrestre che si snodavano come serpenti luminosi, mentre nell’aria i fasci delle luci dei flayer sfrecciavano intersecandosi.

Ma c’eravamo annoiate di questa aerea collocazione, e così mamma Tilde s’è interfacciata a lungo col computer di casa ed in meno d’una settimana hanno programmato la nuova collocazione.

Ora siamo nella jungla, l’ho già detto, ed una foresta impenetrabile inizia dopo centro metri dalla nostra casa, circondandola in tutte le direzioni. Non siamo su un terrazzamento, ma ben piantate sulla terra e tra noi e la jungla c’è solo un verde prato con erba fitta e bassa punteggiata di coloriti fiori meta d’insetti ronzanti e di numerose farfalle.

Mamma Tilde se ne sta quasi tutto il giorno seduta su una sedia a dondolo di vimini sotto la veranda della casa. Già la casa: è rettangolare, molto grande, a due piani ed è tutta in legno.

Mamma se ne sta lì a pensare, o forse guarderà i suoi programmi preferiti collegata in rete. Io preferisco cavalcare o mi butto in piscina, c’è una piscina rotonda dietro la casa di legno, fatta di grandi tronchi intrecciati, la casa non la piscina, e le numerose stanze collocate sui due piani sono tutte arredate in stile rustico (finto rustico).

Mamma guarda il verde, talvolta legge qualche antica rivista cartacea o libro, ma il più delle volte è persa nella rete.

Io cavalco, ci sono tre cavalli liberi nel prato e si lasciano cavalcare che è una meraviglia, faccio anche l’esploratrice nella jungla addentrandomi in strettissimi sentieri e spio gli animali feroci. Gioco con le mie bambole senzienti e con i modellini delle auto e dei flayer.

I giorni passano, e ne sono passati parecchi, ma qui è sempre estate, un’estate non afosa, ma bella.

Ho chiesto a mamma Tilde di avere il mare e lei mi ha indicato un sentiero dietro casa che prima non avevo mai visto. Ho montato Cavallo, è lui il mio preferito, e mi sono inoltrata nel sentiero: dopo circa mezz’ora ho scorto il mare, un mare verde smeraldo con una lunghissima spiaggia di rena fine. Ho galoppato tra gli spruzzi e poi mi sono buttata nel mare: che meraviglia!

Poi mi sono tolta la casacca che indossavo e l’ho lasciata sulla rena ad asciugarsi, mentre io mi sono rotolata a lungo nuda sulla sabbia, finchè il sole non mi ha seccato addosso la rena.

Più tardi mi sono rituffata ed ancora bagnata sono montata in groppa a Cavallo con la casacca in mano.

Dietro la casa ora ci sono le stalle per i cavalli ed uno stalliere che li accudisce. Appena arrivata, lo stalliere s’è preso cura di Cavallo, poi mi ha osservato nuda sorridendo e mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Io gli sono andata davanti e lui mi ha accarezzato prima i capelli, poi la fronte, è sceso sui miei due piccoli seni ed ha leggermente stretto i capezzoli facendomi provare dei brividi piacevoli, ha poi accarezzato a lungo il pelo morbido del mio sesso e con dita delicate ne ha leggermente violato l’intimità causando una gran fuoriuscita di umori. Mi sono allora allontanata da lui mentre mi sentivo tutta bagnata tra le cosce, e la cosa mi ha fatto sorridere.

Pensavo che mamma Tilde provvede proprio a tutto, anche le stalle e lo stalliere, ma soprattutto, il mare.

Il mare, vado sempre più spesso in riva al mare e mi fermo a guardarlo mentre cerco di stare immobile, scaldata dai benefici raggi del sole, e non penso a nulla, faccio il vuoto mentale e solo a tratti m’accorgo che fuori dalla stanza del niente ferve un lavorio estremamente complesso e senza fine. Sì perché faccio il vuoto nella mia mente con le tecniche zen: creo una stanza buia e materializzo ogni pensiero come una colorata palla da ping pong, ed ogni palla la faccio rimbalzare fuori della stanza finchè resta il niente nell’aula buia.

Non riesco però a durare a lungo immersa nel vuoto, poiché il ribollire delle attività fuori della stanza è sempre più frenetico e mi riporta al piano della realtà rappresentato da me in riva al mare.

Cavallo sembra non avere i miei problemi, eppure è una parte di noi, del computer, di me o di mamma. Con la mia bambola preferita parlo sempre e lei mi risponde, con lei ho sempre avuto un rapporto particolare.

Ormai è da parecchio tempo che ce ne stiamo nella jungla ed ho chiesto a mamma Tilde di costruirmi un bungalow sulla riva del mare. Lei mi ha accontentata, ma più che un bungalow è una vera e propria villetta molto carina ed accogliente. Barbi, la mia bambola preferita, è cresciuta ed adesso è una bambina come me, indistinguibile nella sua natura artificiale. Ha anche imparato ad accedere ai database ed ora è mia amica, non più la bambola e sempre più sta sostituendo mamma Tilde che nella sua casa, sotto la veranda, è sempre più assorbita dai suoi pensieri: mi dice di giocare con Barbi e di non seccarla e di lasciarla in pace che ha da pensare, ha da lavorare.

E con Barbi ci siamo sempre più impegnate nel gioco della Casa, poi nel Mondo ed anche nel difficile Tutto: stiamo crescendo.

Ieri, mentre giocavo a Mondo, Barbi mi ha colpito con le sue intuizioni: stavamo facendo botta e risposta sulle differenze tra le intelligenze artificiali e quelle reali, quando lei è uscita con “ma ti sembro meno reale di te?”

Sono rimasta colpita da questa frase e varie perplessità sono affiorate alla mia mente: sono reale e quanto sono reale? Sono umana e quanto sono umana? Ma soprattutto, qual è il mio vero compito? Oltre a scorrere in questa esistenza, sento all’interno di me un lavorio immane di elaborazione e ricerca che coinvolge anche mamma Tilde, il computer, ed ora anche Barbi.

Barbi l’avevo avuta da mamma, era all’inizio una bambola animata come le altre, ma poi io l’avevo scelta, l’avevo preferita e lei è divenuta sempre più senziente, fino a divenire, anche fisicamente una vera e propria bambina come me.

L’ha creata mamma? L’ho creata io? Oppure siamo tutte creature del computer?

Mamma è sempre più distante, Barbi sta crescendo forse anche più in fretta di me, computer è sempre disponibile, ma impersonale, non risponde come un umano alle domande, ma lascia aperti sempre tutti i banchi memoria, ma alcuni sono troppo complessi per me, ma sono sicura che tutte le risposte esistono, anche se ora sono sommerse ed io non riesco a trovarle.

Ho deciso comunque di lasciare mamma Tilde, Barbi, mare e jungla, voglio vivere da sola ed affinare in pace l’interazione con computer, voglio esser libera di navigare nei suoi database.

Ho detto a computer di trasferirmi in un luogo più consono alle mie ricerche, ma lui mi ha ricordato che stavo giocando a Tutto con Tilde.

Gli ho detto che i giochi erano terminati e lui mi ha risposto che ero divenuta adulta e che ora ero pronta.

- Pronta a cosa? – gli ho chiesto, ma lui m’ha lasciato senza risposta, non ho insistito, lo so, le risposte sono nei banchi memoria, sono io che non so ancora coglierle.

Mi sono risvegliata stamani in una cupola argentea, ero sola, il gioco del Tutto era finito, tutti i giochi erano finiti, ne ero conscia. La cupola era fornita di ogni cosa per le mie necessità, e le linee portanti della struttura avevano un qualcosa in più rispetto ai miei precedenti habitat, cosa fosse, razionalmente non lo so spiegare , ma sentivo che era come fossi immersa in un modulo che avesse una marcia in più rispetto alle mie passate abitazioni. Se fosse stata un’auto avrei detto che era d’un nuovo modello.

Mi sono affacciata all’aperto e ciò che ho visto mi ha lasciata molto perplessa, anzi avevo quasi voglia di rientrare in un esterno più confacente, ma poi ho pensato che avevo chiesto al computer un luogo il più consono possibile alla mia crescita intellettuale e spirituale, un luogo che mi aiutasse a tuffarmi sempre più profondamente nelle memorie di computer. Dunque se lui aveva scelto questo posto, era perché era quello giusto che rispondeva alle mie richieste.

E guardai fuori: l’aria era lievemente azzurrata, attorno alla cupola che anche all’esterno era argentea vi era un prato all’inglese molto ben curato e vicino alla cupola cespugli di fiori colorati e profumatissimi. Dopo il cerchio d’erba sorgevano collinette color ruggine di materiali ferrosi, cespugli pieni dei spine, intelaiature metalliche coperte dalle erbacce, più lontano capannoni dai tetti sfondati, tubi che s’infilavano nel terreno ed erano abbandonati forse da centinaia d’anni, torri sbrecciate svettavano verso l’alto, e ciminiere, ciminiere d’ogni tipo e dimensione, in mattoni, in cemento, in metallo che svettavano verso l’alto, ma erano diroccate o inclinate, alcune erano addirittura cadute.

Sembrava una foresta pietrificata abbandonata alla desolazione da centinaia d’anni. Alberi malati si stagliavano nel panorama metallico dell’immane opificio abbandonato.

Mi sedetti trai fiori osservando il panorama che fu industriale e dai database venne la memoria del luogo. Era un opificio, anzi era l’Opificio, enorme possente grande quasi quanto l’intero continente, con milioni d’uomini e di intelligenze artificiali che vi lavoravano. E da qui usciva la maggior parte dei manufatti che servivano per l’umanità, e questo è accaduto per centinaia d’anni finchè l’umanità ebbe bisogno di quei prodotti, ma poi l’opificio cominciò a chiudere alcune parti della sua produzione e molti lavoratori rimasero con le loro abitazioni all’interno dell’area, ma poi tutto decadde sempre più in fretta. Alcune nuove attività, ai margini dell’area furono riattivate o ristrutturate, ma il declino fu sempre maggiore finchè l’area divenne impossibile da essere bonificata e fu abbandonata con i suoi umani intrappolati all’interno, con le intelligenze artificiali condannate all’inedia, con i macchinari che fermi si decomponevano sempre più in fretta, con le torri argentee che venivano aggredite dai rampicanti, con le ciminiere che s’inclinavano facendo assumere al territorio l’aspetto d’una foresta maledetta.

Ed i contenitori, milioni di contenitori, con le più disparate sostanze inquinanti residue, le pareti dei quali sempre più si assottigliavano lasciando uscire licori venefici che si intrecciarono ai miasmi dei residui tossici delle lavorazioni più inquinanti. Montagne poi di prodotti finiti, tutti col marchio AZULH® stampigliato, accatastati come rifiuti, divenuti essi stessi rifiuti.

E nella foresta malefica le mutazioni ebbero il sopravvento ed animali mutanti cominciarono a strisciare tra vegetali degenerati.

Questo era il luogo che le era stato assegnato, questo era il punto da dove la conoscenza sarebbe scaturita.

Questo era l’Eden del mondo futuro.

Flavia si asciugo col dorso della mano le lacrime che rigavano il suo volto e guardò con occhio nuovo la foresta postindustriale, con i suoi miasmi e le sue ignominie, questo era il fulcro per la partenza. Si soffermò poi sui fiori e vide che alcune bellissime e coloratissime farfalle stavano danzando tra le corolle, e questo riuscì a procurarle immenso piacere.

Guardò poi verso la selva di ciminiere sbilenche e tra esse scorse una possente centenaria quercia che maestosa svettava orientata verso il cielo ed alcuni uccelli cinguettavano trai rami. Più in alto alcune rondini stridevano inseguendo piccole prede.

Malgrado tutto, Flavia pensò che anche questo era un buon posto per ricominciare.

 

 

 

 

 

L’ESPLORAZIONE

 

Con mio cugino Carlos abitiamo al Villaggio, un posto desolato rannicchiato in fondo ad una valle che ha come sbocco un freddo mare. Gli abitanti saranno due o trecentomila, i posti di lavoro men che zero, a parte che uno non voglia imbarcarsi per la pesca. Dimenticavo, io mi chiamo Francois e con mio cugino abbiamo ottenuto un diploma alla scuola del Villaggio, io in fisica quantistica e mio cugino è esperto radarista. Due professioni del tutto inutili dalle nostre parti e di questi tempi, il Villaggio infatti è sempre più ripiegato in se stesso ed i contatti con gli altri centri abitati sono quanto mai sporadici e confusi, c’è addirittura chi sostiene che i contatti con gli altri si sono interrotti da oltre cento anni.

 Dicevo che il Villaggio si snoda attorno al mare, ma è circondato dall’Opificio in tutti i suoi altri lati.

L’Opificio è abbandonato da alcune centinaia d’anni e nessuno al Villaggio vuol parlarne, tutti lo rimuovono, come se non esistesse, eppure è lì a solo due o tre chilometri dalle ultime abitazioni, dopo i pochi campi coltivati a grano e a soia.

Ma nessuno ne vuol discutere, nessuno ci vuol andare e tutti si comportano come se quest’immenso ex insediamento industriale non esistesse. Ovviamente tutti i genitori vietano ai loro ragazzi anche d’avvicinarsi e parlano di gravi pericoli nascosti. Ma io e Carlos dei veti ce ne siamo sempre fregati e così abbiamo cominciato ad esplorarlo usando un sentiero che dal villaggio se ne va direttamente all’interno dell’area dell’Opificio. Lo strano è che il sentiero si diparte proprio dalla strada principale della nostra città, basta proseguire sempre a dritto, finchè gli edifici divengono sempre più fatiscenti e meno abitati, andando ancora avanti si notano alcuni fabbricati che sono caduti e le macerie sono fin sulla strada, nessuno abita più qui, erano le case degli operai dell’Opificio, uno dei tanti villaggi operai che sorgevano nell’area: tutte le case sono abbandonate da tempo immemorabile. La strada è ora ingombra di macerie e di rottami, di fili aggrovigliati che dall’alto arrivano fino a terra, da carcasse di vecchie auto totalmente arrugginite e quasi irriconoscibili, da carrelli di supermercato ossidati e rovesciati, ed anche da ossa umane, questa è stata l’ultima nostra macabra scoperta.

La strada è sempre più ingombra di questi materiali man mano che si prosegue ed un sentiero si snoda, ben stagliato tra i cumuli di macerie e continua serpeggiando verso l’area dell’Opificio. Questa è la strada più breve ed è quella che noi in bicicletta abbiamo innumerevoli volte usato per le nostre esplorazioni che si sono spinte sempre più addentro a quest’area abbandonata da centinaia d’anni non solo dagli uomini ma anche dagli dei.

Sempre con la massima attenzione e stando attenti a non allontanarci mai dal sentiero abbiamo visto migliaia di collinette ferrose ed altre composte da mucchi di manufatti corrosi dal tempo tutti col marchio AZULH® ancora leggibile, abbiamo attraversato foreste di ciminiere sbilenche, alcune cadute su un terreno dal quale uscivano tubi d’ogni forma e dimensione, alberi degenerati ed erba velenosa. Abbiamo evitato i cespugli rotolanti che ogni tanto appaiono anche sul sentiero ed i laghetti che contengono chissà quali mostruosità mutanti.

Ed eravamo sempre più affascinati dall’Opificio in dispregio alle opinioni dei nostri genitori che ci dicevano d’evitarlo, ed anzi ci consigliavano pure di non pensarci, che se non si pensa a certe cose oscene, esse cessano d’esistere.

Ma sia a me che a Carlos questa filosofia non piaceva proprio e se è per questo, non piaceva neppure al gruppo dei nostri amici che cominciarono anch’essi a seguirci nelle nostre esplorazioni. Si racconta che l’Opificio fosse grande quasi come il continente e che all’interno vi erano villaggi operai, si racconta anche che chiusero prima alcuni reparti, poi pian piano si spense del tutto, altre attività sorsero sulle sue ceneri soprattutto nelle zone periferiche, ma poi tutto fu abbandonato. Conoscevamo ormai il primo chilometro del sentiero come le nostre tasche: all’inizio si snodava tra ciminiere sbilenche ed un vasto capannone caduto sul lato destro, mentre alla sinistra c’erano alberi inframmezzati da scatoloni che sembravano fatti di cemento ed avevano un lato aperto, gli scatoloni erano tutti vuoti, se mai v’era stato qualcosa all’interno, ora più non c’era. Più avanti v’era una radura con erba rada della grandezza d’un campo sportivo e questo spiazzo era quasi del tutto pulito, a parte alcuni rotoli di filo metallico e di un paio di cumuli di materiale nerastro. Con gli amici del nostro gruppo che venivano spesso con noi, Federica, Felicita, Patrizina, Salvatore, Bruno e Ricardo, avevamo deciso di ripulire l’area e trasformarla in un campo da gioco per noi costruendovi anche una base. Anche Fatta era sempre con noi: non sapevamo il nome di questa ragazza, anche perché non parlava quasi mai, ma tutti la chiamavano Fatta perché era sempre strafatta di roba, ma ci seguiva, non ci creava noie, anzi la dava a tutti quelli che dormivano con lei, era comunque carina, sempre ben vestita e pulita, non sapevamo neppure ove abitasse, ma tanto era sempre più con noi. E proprio un pomeriggio che stavamo di buona lena lavorando alla pulizia del campo vedemmo arrivare un personaggio che già al Villaggio conoscevamo. Era Rodrigo il barbone, che spesso arrivava al bar dove anche noi sostavamo e raccontava le storie più strampalate che abbia mai sentito, tra l’altro sosteneva di vivere nell’Opificio e che voleva pian piano bonificarne un pezzo, ma nessuno ci credeva e per tutti era il solito vecchietto senza pensione totalmente scoppiato. Rodrigo s’avvicinò a noi e ci chiese se volevamo anche noi trasferirci nell’opificio e senza attendere una risposta cominciò a darci una mano portando via con noi dei detriti dall’area verde.

Da quel giorno venne spesso a trovarci, sempre per aiutarci e cominciò a parlare dei pericoli del posto, pericoli che noi dovevamo evitare se volevamo rimanere lì. Ci disse di seguire sempre i sentieri che erano i posti più sicuri ove mettere i piedi, di non entrare mai nelle costruzioni ancora in piedi perché erano zeppe di trappole mortali, di non sostare mai di notte nell’opificio senza un fuoco od una luce accesa, di non mangiare o bere nulla che provenisse o fosse nato nell’opificio senza che fosse stato analizzato approfonditamente, ci regalò anche un contatore geiger dicendoci di controllare sempre la radioattività.

Oltre ai pericoli chimici e meccanici vi erano anche piante ed animali mutanti, bisognava stare ben attenti se volevamo rimanere vivi. Se poi volevamo creare una base all’interno, ci consigliò di fare come lui che non aveva ripulito alcun edificio e non aveva costruito nulla, aveva semplicemente portato lì una roulotte, ed in quella abitava. Ed un giorno ci portò a vedere dove stava, bastava girare su un nuovo sentiero sulla destra rispetto al nostro prato e dopo meno di un chilometro si arrivava ad una piccola radura con nel mezzo una roulotte, una di quelle tutte in alluminio rivettato, il caravan Airstream. Ci disse che il compito che si era prefisso era quello di bonificare una parte dell’area e ci mostrò fin dove lui l’aveva resa sicura, ci consigliò di fare lo stesso anche noi dopo che ci fossimo insediati.

Ma Rodrigo era proprio fissato su quel caravan e poco alla volta ci raccontò tutta la storia di questo mezzo facendoci anche vedere antiche foto, vecchie riviste ed alcuni filmati. Chi l’avrebbe mai detto che noi saremmo finiti a scuola di design con Rodrigo come insegnante? Nato nel 1933 il caravan Airstream, con la sua carrozzeria avvolgente d’allumino a specchio rivettato divenne subito un archetipo formale destinato a divenire un’icona impressa nell’immaginario collettivo americano al pari degli autobus Greyhound e delle bottigliette della Coca-Cola. Dietro questa icona della cultura americana non ci fu un designer o un progettista nel senso classico della parola (come si nascondeva la geniale figura di Raymond Loewy dietro il disegno d’alcuni modelli della Greyhound e della Coca-Cola), ma si trovava un tipico self made man partito da molto lontano rispetto alla progettazione industriale, eppure senza dubbio un classico esponente di quello che fu il sogno americano. Il personaggio in questione fu Wally Byam fondatore dell’Airstream, ma forse anche qualcosa di più, il fondatore di una filosofia del viaggio e dell’abitare nomade: e su questo personaggio abbiamo imparato tutto, proprio tutto, e poco c’è mancato che subissimo delle interrogazioni.

Byam nacque e crebbe non in una grande città, ma in campagna nei pressi d’una cittadina, Baker nell’Oregon: si ricorda in proposito che una delle più leggendarie piste della storia del West fu la Oregon Trail. Nella sua infanzia ai primi del 1900, conobbe l’esaltante esperienza di vivere al seguito di alcuni parenti allevatori, su dei carri attrezzati con materassi, stufa e bacinella dell’acqua. Nella migliore tradizione mitizzata da Melville (solo in due sapevamo chi fosse Melville e Rodrigo ci rimase un po’ male) in età ancora adolescenziale s’imbarcò per tre anni su delle navi, come cameriere prima ed in seguito come marinaio. Nel 1920 arrivò all’Università di Standford e si laureò in legge nel 1923. Ma Byam non si sentì tagliato per il mondo forense e si lanciò nel campo della pubblicità ove ottenne un discreto successo. Non è un caso che gran parte dei designer che daranno vita allo streamline si fosse fatta le ossa, come creativi, proprio in questo campo della propaganda commerciale. In quegli anni fu tra primi ad intuire le grandi possibilità dei manuali a dispense venduti per corrispondenza, in particolare si lanciò nella pubblicistica legata al fai da te.

Trai tanti fascicoli proposti ve n’era uno dedicato all’autocostruzione di una casa viaggiante su ruote, tema che iniziava a suscitare un discreto interesse in quel periodo. Ma il modello proposto venne pesantemente criticato dai lettori, e Byam dopo averlo costruito e provato di persona riconobbe alcuni dei difetti osservati dai lettori e decise pertanto di studiare il problema riprogettando una casa viaggiante ex novo. Per quanto primitivo questo suo primo risultato convinse e trovò anche un finanziatore disposto a realizzarne alcuni esemplari. Il punto forte di questo suo primo progetto, che costituirà una pietra miliare nel settore, fu quello d’offrire innanzitutto una maggior abitabilità in altezza, abbassando il pianale il più possibile ed alzando il soffitto in modo da poter stare in piedi all’interno senza problemi. Siamo sempre negli anni venti quando questo progetto di caravan da lui messo a punto venne venduto per corrispondenza con il libretto d’istruzioni per l’autocostruzione. Nel 1930 lasciò legge, pubblicità ed editoria e nel giardino della sua casa si operò a variare e migliorare in prodotto. Sperimentò l’uso del compensato, della masonite e dei metalli leggeri. Per quanto riguarda gli impianti mise a punto un appropriato sistema idraulico, applicò gabinetti chimici, frigoriferi e stufe a gas. Rispetto al sistema di trasporto s’interessò alle tecniche di costruzione aeronautiche per migliorare la resistenza all’aria e limitare i danni dovuti alle vibrazioni. Furono gli anni dal 1933 al 1939 quelli della grande evoluzione del trasporto aereo passeggeri, ove si distinse per innovazioni la serie DC1, DC2, DC3 della Douglas che sicuramente influenzò Byam. Nel 1943 venne concepito il nome Airstream derivato dai messaggi che gli scrivevano i suoi affezionati clienti descrivendo la sensazione di viaggiare  sul suo modello di caravan “ like a strema of air”.

Il 17 gennaio 1936 Byam fondò la Airstream Trailer co. Lanciando il modello Clipper, fortemente influenzato dai moderni aeroplani e realizzato in monoscocca d’alluminio rivettato. All’interno era dotato di quattro posti letto, dinette in tubolare, sedili trasformabili ed armadi cambusa con porta di separazione. Come sottolineava la pubblicità il Clipper offriva il più avanzato sistema d’isolamento dal calore e di ventilazione, il più completo impianto elettrico d’illuminazione ed in alcuni modelli un sistema sperimentale di condizionamento dell’aria con ghiaccio secco. Nel 1937 questo modello risultava rivoluzionario rispetto alla concorrenza e l’azienda non riusciva a soddisfare le ordinazioni. I primi utilizzatori degli Airstream vennero chiamati “crans” che tradotto letteralmente significa manovella, ma nello slang americano significava qualsiasi macchina scassata ed in disordine. Un fenomeno interessantissimo, stimolato dallo stesso Byam, fu l’aspetto socializzante derivato da questo fatto di riconoscersi airstreamers, ovvero abitanti degli Airstream. Nacque l’abitudine di riunirsi in gruppi sempre più grandi e di trasferirsi come colonie in costante movimento. Alla fine degli anni ‘30 le amministrazioni cittadine e dipartimentali si trovarono a far fronte a notevoli problemi di regolamentazione di questo esercito di nomadi, descritti dall’opinione pubblica con l’azzeccata immagine di “turisti in lattina”. Una parte stanziale della popolazione dei suburbi protesterà per questa invasione ma gli airstreamers s’organizzeranno per concordare regolamenti, associazioni e codici di comportamento. Le autostrade a quattro corsie coast to coast erano già aperte e gli americani riscoprirono il piacere del viaggio abitato sulle tracce dei pionieri nella migliore tradizione del mito americano. Per la Airstream furono anni d’oro ma con la seconda guerra mondiale venne decretata dal governo la proibizione dell’uso dell’alluminio per scopi commerciali in quanto considerato materiale strategico bellico. L’azienda fu costretta a chiudere e Byam trovò impiego presso un costruttore d’aerei a Los Angeles, e per lui fu importante venire a contato con la continua messa a punto dei materiali e delle strutture in lega leggera per la costruzione d’aerei da combattimento.

Nel 1948 riprese l’attività l'Airstream Trailers co. in un edificio dell’aeroporto della California e nel 1955 il club airstreamers contò diciannovemila iscritti. Venne altresì potenziato il sistema di vendita. Nel 1978 si aprì un nuovo capitolo per l’azienda che si trasferì a Jacksonville con tutti gli impianti produttivi.

E Rodrigo in maniera maniacale ci ha fatto imparare non solo tutto questo, ma anche molto di più facendoci studiare i vari grafici tecnici del mezzo, per lui e per noi, un guscio d’astronave che permette la normale vita familiare all’interno, anche se le obiezioni più frequenti erano, ma qui non siamo in America, e poi nessuno sa in che anno siamo.

Ma Rodrigo rispondeva sempre che l’anno non aveva nessuna importanza e neppure su quale continente fossimo, l’importante era che noi eravamo i pionieri di una nuova frontiera e su questo concordavamo. Ci aveva inoltre promesso due caravan uguali al suo se noi avessimo imparato tutto, lui sapeva dov’erano conservati e ce li avrebbe consegnati, ci avrebbe inoltre aiutato per le modifiche necessarie per garantirne l’abitabilità nell’Opificio.

Una promessa che ci interessava e che abbiamo presa per buona.

Intanto l’area che noi avevamo scelta era completamente ripulita e stavamo organizzandoci per andare a prendere i due caravan, quando Bruno scoprì il pollaio a dieci minuti di bicicletta da noi.

Un pollaio? Chiedemmo noi, e quali animali ci sono? Polli e tacchini stranissimi, giganti, sicuramente mutanti e tutt’intorno c’è un reticolato che ha tutta l’aria d’essere sotto alta tensione, c’è poi una grande capanna all’interno del recinto e sembra abitata.

Noi eravamo un po’ increduli, ma decidemmo di verificare, ne parlammo prima con Rodrigo, e lui ci consigliò di lasciar perdere, tanto gli animali mutanti non erano per noi commestibili: chissà quale essere li alleva. Lasciate perdere.

Ma non demmo retta al suo consiglio questa volta e la curiosità ci spinse tutti il mattino dopo a recarci presso il pollaio.

Ci fermammo ad una certa distanza di sicurezza e constatammo che Bruno aveva ragione. Mentre noi cercavamo di stare nascosti il più possibile, Bruno s’avviò verso il recinto e noi lo chiamammo, perché tornasse indietro, che poteva essere pericoloso, ma lui niente proseguì tranquillo ed era ormai ad un paio di metri dal reticolato quando udimmo un sibilo e la parte superiore del corpo di Bruno dopo qualche istante scivolò di lato rovesciandosi sull’erba che era divenuta rossa, le gambe e la vita rimasero ancora in piedi per circa un minuto poi caddero nell’erba ed i piedi cominciarono a scalciare.

Noi restammo inorriditi, senza dire una parola a guardare, non so per quanto tempo, poi saltammo sulle biciclette e tornammo di filata al Villaggio ed ognuno ritornò alla sua abitazione. Quando arrivai a casa mi accorsi che Fatta con la sua bicicletta m’aveva seguito ed ora era dietro di me, la presi per la vita e m’accorsi che tremava, allora la portai in casa e la condussi nella mia stanza, le indicai il bagno e più tardi le portai del cibo in camera.

Il giorno dopo Fatta se ne andò, forse dai suoi? Noi non tornammo all’Opificio se non dopo alcuni giorni. Solo uno di noi andò da Rodrigo per raccontargli cosa era accaduto, e lui scosse il capo e disse, ve l’avevo detto di lasciar perdere, Bruno è stato tagliato da una trappola tesa con un filo monomolecolare, sono comuni queste trappole nell’opificio.

Intanto al Villaggio tutti s’accorsero che Bruno mancava, non era infatti tornato a casa e la mattina non c’era a scuola, lui frequentava ancora. Che fine avesse fatto sembrava però non interessare nessuno, o forse tutti sapevano che andavamo all’Opificio ed era normale che qualcuno sparisse.

Quando tornammo all’opificio con le biciclette ci recammo ove Bruno era morto con l’intenzione di seppellire il corpo, e tutti eravamo armati, chi con armi a proiettile e chi con pistole laser, le avevamo prelevate nelle nostre case, eravamo anche decisi, se ne fosse presentata l’occasione di vendicare il nostro amico.

Arrivammo nei pressi del pollaio coi suoi enormi strani e mutanti animali e non vedemmo il corpo di Bruno, ma poco lontano da dove era caduto vedemmo un mucchietto di bianche lucide ossa.

Il coraggio di tutti svanì e le armi ci sembrarono inutili, così rimontammo silenziosi in bicicletta e andammo al caravan dell’amico barbone, che ci stava aspettando.

Ci disse che Bruno s’era comportato da stupido e che gli stupidi nell’Opificio non duravano a lungo, poi ci disse che era giunto il momento di prendere i nostri due caravan e di portarli nel nostro prato. Poi per la prima volta ci raccontò un po’ della sua vita, lui era stato un insegnante all’Università del Villaggio, prima che venisse chiusa, era un ingegnere meccanico. I due caravan erano in un hangar dell’Università ed erano conservati in ottimo stato, come nuovi, all’inizio erano tre, ma uno l’aveva preso lui tanto tempo fa. Poi passò alle cose pratiche, tra l’hangar dell’Università ed il nostro prato c’erano circa cinque chilometri tra viottoli e strade con macerie. Occorreva ripulire il passaggio e poi arrivare con i caravan. Per spostare i caravan, nessun problema, avevamo braccia e biciclette: bastavano, e Rodrigo ci mostrò delle foto ingiallite di Airstream spostate da un unico ciclista!

Ci vollero tre giorni per ripulire la strada che avremmo dovuto fare coi caravan ed eravamo tutti al lavoro compreso Rodrigo che aveva uno strano arnese, che serviva a spostare gli oggetti: antigravità? Era un carrello da trasportare a mano con quattro ruote tutte in fila che sostenevano un cubo nero dal quale usciva un tubo flessibile metallico che terminava nel calcio di un oggetto verde che sembrava un fucile spaziale di plastica per ragazzi.

Poi uscimmo coi caravan, io e Carlos pedalavamo attaccati a due mezzi e gli altri a piedi spingevano: in un giorno ce la facemmo e lasciammo alla sera gli Airstream nel mezzo al nostro prato, Rodrigo attivò l’impianto d’illuminazione e per la prima volta restammo tutta la notte nell’opificio ed anche Rodrigo rimase con noi.

Rodrigo il barbone era ormai divenuto per tutti noi il Professore e sempre più ci stupiva con tutte le sue conoscenze, anche pratiche che ci avrebbero permesso d’insediarci tranquillamente nell’opificio. La nomea di barbone tra l’altro se l’era creata lui stesso, stanco dei privilegi accademici, ormai obsoleti, dei quali aveva beneficiato. Visto che la sua sapienza era divenuta inutile aveva deciso di darsi a tempo pieno a qualcosa di costruttivo, e così aveva bonificato un’area dell’Opificio, una piccola cosa, ma costantemente proseguiva. E tirare avanti, tirava avanti bene, malgrado il travestimento, aveva infatti la sua pensione da docente, poi coltivava molte cose selezionate accanto al suo caravan, ed un giorno ci fece vedere l’orto e gli alberi da frutto che si trovavano li attorno. Si coltivava praticamente tutte le verdure necessarie, aveva un pozzo artesiano, costantemente controllato dal quale usciva acqua quasi pura, ma veniva subito filtrata da un altro piccolo impianto. E l’acqua irrigava ogni verdura ed anche della buona canapa indiana accanto ai filari di pomodori e delle piante di tabacco.

Ci disse di non essere l’unico nella nostra zona a bonificare l’area, c’era anche quella che lui chiamava la Dea, ci incuriosì ed una mattina ci portò a vederla.

Ad un’ora di bicicletta dalla nostra base sempre seguendo i sentieri si arrivava ad una depressione ove tutto era verde come nei campi da golf giù al Villaggio, vi erano cespugli di rose in fiore ed altre piante molto belle. Tutte le scorie in questa zona erano state rimosse ed anche le ciminiere e gli edifici fatiscenti. Anche gli alberi degenerati erano spariti ed al loro posto sorgevano querce, ontani e pini.

Proseguimmo in questo giardino dell’Eden ed arrivammo fino a scorgere una cupola argentea circondata dal verde e dai fiori.

-         Oltre non possiamo andare, dobbiamo fermarci qui. C’è un fortissimo campo di forza che respinge ogni cosa. Ma da qui possiamo osservare e non c’è paura alcuna anche se siamo visti. Ecco la Dea, la in fondo, guardate quanto è bella!

Guardai nella direzione indicata dal Professore e scorsi tra i cespugli di rosa una bellissima donna, bionda che sembrava nuda, ma a meglio osservarla, molto probabilmente era ricoperta da una guaina trasparente di una qualche sostanza aderente, sì che la sua pelle sembrava rilucere.

Rimanemmo per molto tempo in silenzio ad osservarla, sdraiati sulla morbida erba, quasi fossimo ad un pic-nic, poi tornammo verso la nostra base.

L’opificio non era poi tutto un incubo!

Passavano i giorni e la base era sempre più accogliente, si decise di andare a prendere ciò che rimaneva di Bruno per dargli una onorevole sepoltura, tra l’altro al Villaggio nessuno parlava più di lui, era come se non fosse mai esistito, pure per la sua famiglia.

Chiedemmo al Professore se poteva venire con noi a recuperare le ossa con quel suo carrello antigravitazionale, così non avremmo dovuto avvicinarci troppo al luogo delle trappole col filo mononucleare. Il Professore ci disse subito di sì e fermò il carrello alla bici e tutti assieme ci dirigemmo verso il pollaio.

Quando arrivammo ci accorgemmo che il terreno era stato tutto smosso e le zolle della terra erano state rovesciate, sembrava che qualcuno o qualcosa avesse arato tutta la zona. Non solo non c’erano più le ossa di Bruno, ma non c’era più neppure il pollaio con i suoi animali degenerati ed anche la capanna era sparita.

Con cautela ci addentrammo nel terreno che sembrava arato, ma non trovammo niente di vivo, né tracce delle passate presenze, solo qualche antico ed incomprensibile manufatto con la scritta AZULH® che emergeva dal terreno assieme a piccole pietre.

-         O chi abitava qui s’è trasferito ed ha cancellato ogni traccia della sua passata presenza, o qualcuno o qualcosa ha bonificato l’intera area, magari iniziando una nuova piantagione. Torneremo poi a controllare.

Così disse il Professore e dopo un’ultima occhiata tutti girammo le bici dirigendoci di nuovo alla nostra base.

I caravan erano divenuti veramente accoglienti, adesso avevamo energia illimitata ed acqua quasi pura, potevamo anche coltivare qualcosa, avevamo ripulito ancora vari altri pezzi attorno alla base ed avevamo gettato i detriti in un buco li vicino che avevamo quasi riempito, era la nostra personale discarica: quando il buco fosse stato quasi del tutto ricoperto avevamo deciso di finirlo di riempire con buona terra e di piantarci sopra un ulivo, è una pianta che dice porti fortuna, e questo posto è stato fin troppo martoriato, adesso ha bisogno di fortuna e di gente come noi o come il Professore e la Dea.

Eravamo adesso giunti ad una costruzione rettangolare che sembrava in cemento con una sola porta su un lato, che pareva anch’essa in cemento. La costruzione misurava circa venti metri per lato ed una diecina in altezza. Pur con tutte le cautele volevamo entrare, per vedere cosa ci fosse al suo interno, per ripulirla e ristrutturarla a nostro uso e consumo. Avevamo un grosso laser da taglio ed il Professore ci lavorò a lungo per aumentarne la potenza, quando fu pronto indirizzammo il fascio di luce contro la porta e ne ritagliammo la sagoma.

Non successe nulla, finchè Fatta non andò fino alla porta, che tra l’altro doveva essere ancora calda, spinse e la porta con un schianto cadde all’interno.

Facemmo prima luce all’interno, poi scandagliammo il pavimento e le pareti coi sensori, attivammo il geiger ed il rilevatore magnetico, insomma usammo tutti gli accorgimenti prima di entrare con tranquillità. Tutto all’interno era vuoto, tutto era pulito e come nuovo, sembrava che la stanza fosse stata completamente sigillata. Sul pavimento giacevano quattro casse uguali di plastica grigia.

Le scannerizzammo per bene una alla volta, erano piene d’oggetti e sembrava che non vi fosse alcun pericolo, così spostammo le quattro casse fuori dalla costruzione e le lasciammo all’aria aperta ripromettendoci di trovare la maniera d’aprirle senza rovinare il contenuto.

Poi ci dedicammo alla costruzione ed in poco tempo la trasformammo a due piani con finestre e stanze all’interno. Era praticamente finita al grezzo, poi pian piano l’avremmo rifinita per bene, il tempo non era che mancasse, anche perché ognuno di noi una volta la settimana si recava alla propria casa e prelevava ciò di cui aveva bisogno. Poi avevamo anche avviato le coltivazioni e contavamo di rivendere bene l’oppio e la maria.

Un giorno arrivò il Professore e ci disse d’aver scoperto come s’aprivano quelle casse ed estrasse un piccolo telecomando, forse era a infrarossi, ci armeggiò un po’ ed infine i quattro coperchi si sollevarono.

 

LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE

 

La prima cassa era colma di piccoli oggetti che sembravano di cristallo, ma erano tiepidi al tatto, e che cambiavano costantemente di colore in maniera lenta ma costante. Erano tutti spigolosi con angolature che sembravano impossibili e cortocircuitavano la vista. Non se ne comprendeva le funzioni o forse erano solo dei soprammobili, dei pezzi artistici d’arredamento.

Ci rivolgemmo allora alla seconda cassa colma di piccoli cilindri con le due estremità appuntite, sembravano delle penne, e lo erano, tra l’altro scrivevano dalle due estremità  ed il colore del segno che lasciavano cambiava ogni volta che si mutava la punta.

La terza cassa era piena d’orologi da polso, anche se di forma inconsueta erano inequivocabilmente degli orologi da polso, e funzionanti, perfettamente funzionanti. Erano composti di un materiale metallico altamente flessibile e morbido, con un cintolino che s’autoregolava. Il quadrante sembrava fatto dello stesso materiale che però diveniva trasparente e lasciava vedere all’interno le cifre digitali dell’ora esatta che rapidamente mutavano.

La quarta cassa conteneva scacchiere che generavano le pedine olografiche degli scacchi di splendida fattura. Tutto sembrava fatto d’onice e le pedine si muovevano col pensiero dei due giocatori. Nella scatola c’erano cinquanta tastiere tutte perfettamente funzionanti.

Ogni oggetto, aveva ovviamente stampigliato il solito marchio AZULH® che era presente in ogni manufatto dell’Opificio.

Tutti pensammo subito che avremmo potuto aprire nel Villaggio un negozio per la rivendita degli oggetti ritrovati e che coi crediti guadagnati avremmo potuto acquistare il macchinario per poter con sicurezza portar avanti un serio piano di recuperi.

Tornati al Villaggio con i campioni dei nostri ritrovamenti, non aprimmo un negozio, ma il proprietario del più grande spaccio del Villaggio s’aggiudicò l’esclusiva d’ogni nostro ritrovamento e ci assicurò, con contratto, il sessanta per cento del ricavato delle vendite. Eravamo anche ricchi, ed avevamo per caso impiantato un’attività in un luogo ove la disoccupazione anche giovanile era la norma.

E la sera della stipula del contratto, festeggiammo nelle nostre due roulotte e ponemmo le basi per la ristrutturazione dell’hangar rettangolare che avevamo bonificato.

Trovammo anche molte altre cose strane e tutto fu rivenduto con buon margine, ristrutturammo anche l’hangar utilizzando una cooperativa edilizia che s’incaricò di tutti i lavori. In tutto il Villaggio una sola cooperativa fu disponibile a venire a lavorare nell’opificio, tutti gli altri ne avevano ancora una paura matta. Ci divertimmo poi ad arredare la nostra base, stavolta in muratura, senza però mai dimenticare l’esplorazione, la bonifica ed i recuperi.

Io e Fatta facevamo ormai coppia fissa e spesso andavamo in avanscoperta con dei piccoli mezzi scoperti a quattro ruote che funzionavano ad energia solare e che s’infilavano silenziosi da tutte le parti. Ed un pomeriggio mentre lentamente procedevamo scannerizzando e registrando il territorio, eravamo a circa cinque chilometri dalla base e non eravamo usciti dal sentiero principale, quando vedemmo una depressione sotto di noi attraversata da una linea ferroviaria, che entrava ed usciva in due gallerie che sembrava scendessero nel sottosuolo. E nel bel mezzo della depressione c’era una vecchia stazione ferroviaria, una di quelle come si vedono nei villaggi dei vecchi telefilm americani. Ovviamente era fatiscente e circondata da rifiuti d’ogni tipo: i soliti cavi metallici, tavole di legno abbandonate, cumuli di macerie, pali divelti, carcasse d’auto da tempo trasformate in mucchi di ruggine. Ed in questa desolazione alcuni cespugli rotolanti si muovevano lentamente. Misurammo la radioattività, ed era alta, ma non tanto da non permetterci un piccolo giro. Stavamo scendendo quando una inaspettata nebbia si diffuse in folate dense all’interno della depressione. Ci fermammo e cominciammo ad udire lo sferragliare d’un treno in arrivo. Fatta si strinse a me e con estrema curiosità stavamo guardando l’ingresso delle due gallerie anche se ora era a tratti coperto dalla nebbia. Ed un treno uscì, un treno nero, affusolato e sinistro nella fiancata del quale si vedevano dei finestrini e delle porte, ma dietro essi il nero. Il convoglio spinto da una locomotiva da incubo, nera costellata da ammiccanti luci rosse che sembrava uscita da un delirio futurista, si fermò per qualche minuto e noi lo osservammo anche con il binocolo e dietro le porte ed i finestrini neri ci sembrò di vedere dei volti che stavano guardando fuori. Poi la locomotiva emise un fischio acuto ed il convoglio ripartì imboccando l’altra galleria e sparendo alla nostra vista, mentre noi fummo investiti da una folata di vento gelido. La nebbia scomparve e noi ritornammo sul sentiero.

La sera raccontammo l’incontro agli altri e s’aprì tutta una serie d’ipotesi e di discussioni anche su altri misteri dell’opificio. Il Professore ci disse che lui aveva fatto delle interessanti scoperte e sarebbe bene che noi lo ascoltassimo con attenzione. Un po’ per scherzo ed un po’ per gioco ci trasferimmo al piano terra della nostra base ove avevamo allestito una sala conferenze e mettemmo il professore in cattedra perché ci facesse la nuova lezione, e vi garantisco che fu una lezione interessante.

Aveva coi sensori scannerizzato l’intero territorio inoltrandosi fino a venti chilometri e le mappe così realizzate ci sarebbero state molto utili. Ovviamente i siti pericolosi erano tanti, chissà quante sostanze venefiche avevano consumato i propri contenitori e s’erano sparpagliate in giro, chissà quanti fuochi, mai spenti covavano ancora sotto le macerie e l’oblio.

Ci chiese se avevamo notato quella specie di scrittura formata da quadrati sovrapposti che si trovava quasi ovunque sui manufatti dell’opificio, ed era molto evidente, scritta in rosso, alle basi delle ciminiere. Lui l’aveva decifrata, non era una scrittura ma si trattava di stringhe di numeri. Ogni costruzione nell’opificio era stata numerata, perché? Ma la domanda più interessante era un’altra, il Professore ci disse d’esser riuscito a datare le costruzioni che sorgevano nel nostro settore e le scritte. Le costruzioni erano state abbandonate quattro, cinquecento anni fa, mentre le scritte erano state fatte circa trecento anni fa, cioè duecento anni dopo la chiusura dell’opificio. E chi aveva numerato tutto? Nelle memorie non c’è traccia di quella numerazione che tra l’altro non è neppure decimale ma è basata sul dodici, ed il professore ci disse d’aver guardato bene tutte le memorie esistenti. Ma allora l’opificio è chiuso da cinquecento anni? Fu la domanda che tutti noi ponemmo poiché non pensavamo proprio che fosse passato tanto tempo. Sì, ci rispose il Professore e posso essermi sbagliato di cento anni in più o in meno, aggiunse.

Quella sera ci addormentammo assillati da mille domande che ci ponevamo, mille domande e nessuna risposta certa.

 

 

 

REZIA DETTA FATTA

 

Mi chiamo Rezia, ma ormai tutti mi chiamano Fatta, per me un nome vale l’altro. Mia madre era una stella del sistim e molti si collegavano in rete con lei soprattutto per scoparsela, mio padre l’ho solo intravisto qualche volta e quando veniva a trovare me, finiva sempre per litigare con mia madre. Lei non si curava minimamente di me e sono sempre stata completamente libera ed ho sempre potuto fare quello che volevo mentre mia madre se ne stava in rete a scopare con gli altri e di me tutti se ne fregavano altamente. Ma quello era il suo lavoro e dicono che fosse anche parecchio brava.  Già da bimba ho cominciato ad usare lo stimolatore neurale, nessuno me l’ha mai impedito e l’ho sempre regolato sul sogno e sul godimento. Me lo sono poi fatto impiantare ed a mia volontà ho scariche in ogni momento. Sicuramente è per questo che mi chiamano Fatta, gli altri s’accorgono che sbiello in continuazione, anche quando sono lucida e lascio al minimo lo stimolatore perché la realtà diviene più onirica, a più colori ed a sensazioni dolci. Ma con Francois ho riscoperto, o forse scoperto per la prima volta, alcune sensazioni dolci della vita reale che non credevo esistessero, con lui infatti posso spegnere lo stimolatore ed è una cosa che ultimamente faccio sempre più spesso. Ed ho ripreso a parlare con gli altri, cosa questa che un tempo mi riusciva estremamente faticosa ed evitavo di farla anche perché lo stimolatore mi faceva intravedere i pensieri degli altri. Quelli di Francois li ascolto a stimolatore spento. Ed anche questi amici, questo luogo m’intriga, come un viaggio, più mortale di quello neurale, con più pericoli, ma estremamente intrigante. Per questo vado in avanscoperta da sola o con Francois ed annoto i nostri futuri passi e le nostre future ricerche. 

E nei miei viaggi ho incontrato il prato delle farfalle, in vasto prato abitato da grandi farfalle multicolori che svolazzano qua e la senza posa posandosi sui fiori e girando, quasi ballando tra loro. Appena le vidi, ero in bicicletta, smontai e mi misi seduta su una grossa ruota dentata che giaceva semiaffondato nel terreno. Pensai subito allo stimolatore e per un attimo credetti fosse un’allucinazione da lui indotta, anche se lo stimolatore era regolato al minimo, quel minimo che da alla realtà un sottofondo musicale come negli antichi film. Lo spensi, ma le farfalle rimasero a danzare davanti ai miei occhi ed io rimasi non so quanto tempo incantata ad osservarle, poi passeggiai nel mezzo ad esse ed alcune di loro si fermarono addosso a me e poi svolazzarono via. Parlai agli altri del prato delle farfalle ed una mattina ci recammo in gruppo a vederle: Con me c’era Francois, Carlos, Federica, Felicita, Patrizina, Salvatore, e Karin in giovane di colore che faceva parte della cooperativa edilizia, ma è rimasto con noi. Eravamo tutti in bici e quando siamo arrivati tutti si sono fermati estasiati ad osservare la danza delle mille farfalle colorate. Eravamo lì da circa un’ora quando Salvatore ha cominciato ad urlare e non mi è riuscito capire perché. Una farfalla lo aveva punto? Ma perché? E non solo ma altre farfalle sembrava volessero aggredirlo, poi ho visto Francois raccogliere un barattolo di vetro da terra ed aprirlo, da barattolo è uscita volando una farfalla. Appena la farfalla ha spiccato il volo tutto è tornato normale, ma non Salvatore che gridava senza emettere alcun suono. Carlos ha afferrato Salvatore e senza tanti complimenti l’ha posato sulla canna della bicicletta ed è partito di corsa. Noi gli siamo andati dietro e Carlos viaggiava come un vero corridore, siamo arrivati alla base ed ha proseguito è arrivato fino al villaggio e s’ è fermato solo davanti all’Ospitale ed ha lasciato Salvatore agli infermieri del pronto soccorso dicendogli che un insetto l’aveva punto. Hanno cominciato a parlare di shock anafilattico e l’hanno subito potato via in lettiga di corsa mentre un dottore gli faceva delle iniezioni.

Carlos s’è stravaccato su una poltrona ed era ansimante, neppure un’ambulanza poteva essere stata così veloce. Abbiamo aspettato tutti un sacco di tempo, poi un giovane dottore ci ha raggiunto e ci ha detto che Salvatore ormai era fuori pericolo e, meno male che l’avete portato subito, qualche minuto in più avrebbe potuto essergli fatale. Ma quale insetto l’ha punto, era pieno di neurotossine e gli ci vorrà del tempo prima di smaltirle del tutto.

-         Una farfalla.

-         Ma che dite, non è possibile!

-         No, era una farfalla.

-         Voi avrete visto una farfalla che gli si è posata addosso, ma vi garantisco che chi l’ha punto non era certo una farfalla. Domattina comunque potete venirlo a trovare e starà già bene.

 

Detto questo il dottore se ne andò. Quando tornammo alla base il professore ci stava aspettando con le ultime novità, già sapeva tutto quello che era successo ed aveva pure parlato con l’Ospitale, il Professore era l’unico di noi che da quando aveva abbandonato il look barbone si divertiva ancora ad usare i cellulari e telefonava sempre a tutti.

-         Allora ragazzi ho visto le vostre farfalle, sono innocue se ci comportiamo bene. Prima cosa non sono farfalle, sembrano ma non sono. Assomigliano di più alle vespe e alle api, hanno un nido e sicuramente una regina e sono molto intelligenti, di un’intelligenza di gruppo. Salvatore ne ha catturata una e loro si sono scagliate contro Salvatore. Appena la farfalla è stata liberata, tutto è tornato normale. Non sono pericolose se non gli facciamo del male, divengono mortali se devono difendersi, e sapete una cosa? Sono bellissime e voglio studiarle a fondo.

E così ho scoperto queste meravigliose farfalle ed i loro segreti sono cominciati ad affiorare, grazie agli studi del nostro professore, ma ho osservato anche un’altra cosa che mi sembra interessante e ne voglio parlare con lui.

Sì, voglio parlare col Professore dei cespugli rotolanti, mi sono infatti accorta che si comportano in maniera strana, rotolano anche quando non c’è il vento, o addirittura controvento. L’altro giorno con la bici ne ho seguito uno anche quando è uscito dal sentiero ed il cespuglio si comportava come se si fosse accorto  che lo stavo seguendo.

Ha rotolato lentamente fra vari cumuli di materiali eterogenei e forse di scarto, abbandonati in collinette ed è giunto in una zona che era pavimentata con lastre di pietra, forse una piattaforma di carico della grandezza d’una piazza del Villaggio ed era proprio ben lastricata, solo dei ciuffi d’erba spuntavano tra qualche pietra e pietra, ed in questa piazza rotolavano lentamente altri quattro cespugli.

Sono rimasta seduta ad osservarli ed avevo la netta impressione che i cinque cespugli eseguissero una danza proprio per la mia presenza, quasi a ringraziarmi d’essermi accorta di loro.

Intanto mi ero annotata il percorso su un foglio del taccuino che mi porto sempre dietro. Lo so che non dovevo uscire dai sentieri noti perché ero sola, ma questa mi era sembrata un’occasione unica, e poi il cespuglio m’aveva condotto per un sentiero sicuro.

Dopo circa un’ora  che li osservavo nei loro movimenti, che tra l’altro erano ripetitivi delle stesse figure geometriche ed ho appuntato anche le figurazioni, sono risalita sulla bici per ritornare  alla base. A quel punto un cespuglio, forse quello che mi aveva accompagnato, s’è mosso velocemente e si è messo a rotolare proprio davanti a me e mi ha guidato sulla stessa via dell’andata fino al sentiero tracciato, poi accelerando è sparito dietro ad un gruppo di ciminiere.

 

Federica

 

Sono Federica e lavoravo saltuariamente come commessa in un negozio di abbigliamento del Villaggio, adesso è circa un anno che sto all’opificio e devo confessare d’essermi fermata qui soprattutto perché mi sono innamorata del Professore, infatti passo molte delle mie notti con lui e spesso l’aiuto a rimettere in ordine il suo Airstream. Penso che un giorno o l’altro mi chiederà di trasferirmi da lui, e so che accetterò. Lasceremo magari il caravan per un alloggio più normale.

La vita in questo posto è comunque divertente ed avventurosa e scorre abbastanza tranquilla anche se si avvertono mille pericoli latenti dietro l’angolo. Siamo però molto cauti e sempre preparati ad ogni evenienza. Anche da un punto di vista finanziario, tutto sembra andare per il meglio e le nostre attività di recupero rendono assai. Troviamo un’infinità di cose ed alcune non riusciamo proprio a comprendere cosa siano o a che cosa siano servite, alcune sono funzionanti, altre no, ma riusciamo senza sforzo a vendere tutto, abbiamo giù al Villaggio chi ci compra ogni cosa.

La base è oggi costituita da due edifici in muratura a due piani che abbiamo ristrutturato e poi arredato. Io abito in un piccolo appartamento, quasi un monolocale, piccolo ma accogliente. Il Professore è sempre sul suo Airstream, gli altri due li usiamo come basi avanzate per l’esplorazione, “un’astronave nel grande mondo selvaggio” così veniva definito il caravan in un vecchio spot pubblicitario, e mai spot fu così azzeccato!

Stiamo facendo la cartografia dell’opificio, stiamo bonificando le zone a noi vicine, chiudendo, almeno per ora, le zone che riteniamo pericolose. Abbiamo anche trovato un gruppo di cavalli che vagavano nell’opificio, li abbiamo catturati e si sono dimostrati estremamente docili e domestici. Si sono fatti facilmente cavalcare  ed alcuni le adoperiamo per le escursioni, gli altri li abbiamo collocati in un maneggio che abbiamo aperto in una zona sicura ai confini col Villaggio, ed insegniamo, a pagamento, agli abitanti del Villaggio a cavalcare lungo i sentieri che abbiamo appositamente aperto.

Anche a me piace molto cavalcare ed adoro i cavalli, chi avrebbe mai detto che ne avrei visto uno? Mi piacciono talmente tanto che spesso vado ad aiutare al maneggio e lì il lavoro non manca, abbiamo anche assunto cinque giovani del Villaggio che sono stati ben felici d’aver finalmente trovato un lavoro, anche se all’inizio la vicinanza dell’opificio li rendeva nervosi: ma oggi cavalcano anche lungo i sentieri che abbiamo aperto anche all’interno dell’area.

 

Ancora sulle farfalle

 

Oggi alla Base si sono viste le farfalle, le abbiamo notate svolazzare sopra le aiole fiorite e curiosare fin dentro le abitazioni. Queste farfalle sono veramente meravigliose nei loro sgargianti colori ed alcuni di noi, che le vedevano per la prima volta sono rimasti stupefatti ad osservare la loro grazia.

Anche Salvatore che ha con loro avuto una brutta esperienza, era tra coloro che le ammiravano e diceva agli altri “Non le toccate, che è meglio!”

Le farfalle, o quello che diavolo sono, il Professore dice che sono delle meravigliose api, sembra che comprendano quando noi le ammiriamo, ed allora si danno da fare  per sembrare ancor più armoniose nelle loro danze ed ad evidenziare al meglio i loro colori.

Si comportano un po’ come i pavoni che sono nei giardini del Villaggio, che quando li guardi e se ne accorgono, sfoderano una ruota di penne meravigliosa e si “pavoneggiano” appunto, e sempre più, ecco le farfalle fanno proprio come loro.

Ma come erano giunte alla nostra base? Ci avevano seguiti? Avevano aperto un nido qui? Stavano bene con gli umani? Saranno ostili? O ci regaleranno il miele?

Domande che tutti ci siamo poste ed alle quali solo il tempo potrà dare le risposte.

Le attività della base oggi si sono un po’ rallentate a causa di questa piacevole novità ed eravamo tutti un po’ più felici nel mirare questi fiori svolazzanti. Ma ad un tratto, quasi a riportarci alla realtà, abbiamo avvertito una forte esplosione che non doveva esser molto lontana. La terra ha tremato per qualche secondo ed i vetri delle finestre si sono messi a vibrare.

L’esplosione veniva all’interno dell’opificio e ci ha ricordato la pericolosità del posto, un avvertimento a non abbassare mai la guardia ed a esser sempre pronti a contrastare le sorprese più spiacevoli.

Questo è un luogo che è stato violentato dall’uomo nei tempi passatati nella peggiore delle maniere, un luogo che oggi  potrebbe anche vendicarsi su di noi che invece vogliamo ricostituirlo nella sua bellezza.

Sappiamo che la nostra impresa è ardua, il luogo è immenso, si dice che sia vasto quanto l’intero continente e noi siamo poca cosa al confronto. Ma saremo sempre di più e sempre più tenaci nel recupero. Ormai l’uomo, noi almeno, non abbiamo più paura di questa foresta stregata, la percorriamo, la vogliamo conoscere, addirittura l’amiamo. Gli altri non osano neppure nominarla, ma non importa pian piano rientreranno in possesso dei luoghi risanati e questi sono destinati ad accrescersi giorno dopo giorno.

La foresta stregata ha pure i suoi orchi, non siamo riusciti a vederli, ma abbiamo visto le loro tracce, le loro devastazioni, le loro uccisioni, riusciremo a dominare anch’essi.

Vi sono pure i luoghi stregati: c’è una stazione ove transitano i treni dei morti diretti verso la loro ultima destinazione. Sapremo rispettare questi luoghi e da stregati li trasformeremo il luoghi santi e di rispetto.

 

Nella cupola d’argento

 

-         Tilde! Che sorpresa! Come mai sei qui?

-         Ero venuta a vedere cosa combinavi, il computer mi dice che eri molto occupata, ma si dev’essere sbagliato, è un’ora che t’osservo e non ti sei mai mossa  dalla veranda e vedo che seguiti a sonnecchiare.

-         Sonnecchiare? Veramente stavo elaborando  piani d’intreccio all’interno delle aree di schiuma quantica.

-         Caspita! Che compiti elevati! Pensavo tu fossi venuta qui per bonificare una discarica.

-         Sto facendo anche quello, ma solo per quello che riguarda la zona qui attorno, lo sai che amo muovermi tra cose belle ed armoniose.

-         E perché hai scelto una discarica? Potevi scegliere un intero pianeta fiorito od uno ricoperto di tappeti di capelli.

-         Le cose semplici non mi soddisfano. E Barbi cosa fa? L’hai lasciata sola?

-         Barbi è cresciuta e sa badare a se stessa. Anche tu sei cresciuta, vedo, ma non comprendo lo stesso questa scelta.

-         E la tua dimora dove si trova ora?

-         In mezzo al mare, su un’isola di spiagge e palme, ed albatri e tartarughe giganti.

-         Ed io qui invece, in un opificio abbandonato da centinaia d’anni: ma è reale o una simulazione, dimmi Tilde tu che sei più esperta di me.

-         Io e te siamo reali o siamo simulazioni? Tutto quello che è, è reale, dovresti ormai averlo capito da tempo.

-         Avevo bisogno di assicurazioni, ma tu non sei in grado di darmele. Qui tutto sembra estremamente reale, questo posto è abitato da mostri e demoni, ma vi sono anche delle fratture temporali che non riesco a seguire. E meno male c’è un gruppo di persone che stanno facendo  ordine, sono tutti molto giovani, a parte un saggio che chiamano il Professore. E’ buffo, loro pensano  che anch’io stia bonificando la zona, e che sia qui per questo, e poi lo sai come mi chiamano?

-         Dimmelo!

-         Mi chiamano la Dea!

-         Addirittura! Quasi quasi resto con te, così le Dee saranno due, e poi tanto Barbi sa stare anche da sola, e poi non è sola, c’è lo stalliere che è rimasto con lei.

-         E potremo divertirci anche a bonificare un po’ di roba, tanto per farli contenti.

-         E’ un’idea!

-         Vi sono anche dei semiumani, delle tribù all’interno, ma tutti sono disturbati mentalmente, da evitare, e poi piante ed animali mutanti che convivono con le specie naturali.

-         Un posticino per non annoiarsi: paradiso ed inferno assieme.

-         Proprio così, c’è una cosa buffa, delle bellissime farfalle  che hanno preso a stare coi coloni, io li chiamo così e penso sia il vocabolo adatto per definirli. Ma ti dicevo delle farfalle, queste bellissime sono sempre dietro a loro, però non sono vere farfalle, sono più simili alle api e alle vespe, conducono una vita di gruppo e forse hanno un’intelligenza collettiva, sembra proprio che comprendano gli umani e tra loro si sta creando una specie di simbiosi. Vorrei averle anche qui attorno alla cupola, ma trai miei fiori non le ho mai viste, ci sono solo molti insetti e farfalle normali.

-         Dovresti invitare i coloni qui da te, forse verranno anche le farfalle.

-         E’un’idea! Penso che lo farò. Ma giochiamo?

-         Sì, a Tutto? Sai che sento la mancanza dei giochi con te?

-         Ma aspetta: l’ultima volta che abbiamo giocato a Tutto, dopo siamo passati a Storia, e la storia ci ha portato ad oggi. Ma allora la Storia non era una fantasia, era una cosa reale.

-         Perché, secondo te anche il gioco del Tutto non è reale?

-         Sì lo è.

-         Comincio io: i cuori sono duri, il più delle volte non si spezzano.

-         Stephen King! Chicago sorgeva sulla sponda di uno dei grandi laghi.

-         Il lago Michigan. Quando avevamo tutte le risposte ci hanno cambiato le domande.

-         Galeano! Ma a punteggio come stiamo?

-         Niente punteggio, solo un colpo per uno, tocca a te.

-         Lassù tra quelle aride e assolate pietraie si svolge uno strano mercato, puoi barattarvi il vortice della vita per una beatitudine senza confini.

-         Milarepa. Il maschio del fillobate è noto per le amorevoli cure che riserva ai suoi piccoli:come si comporta?

-         Non vale, Tutto è limitato alle cose della Terra, tu dove sei andata a trovare il fillobate?

-         Nell’America centromeridionale! Ed è un ranocchio, quello che si carica i girini sul dorso e li porta a spasso.

-         Quanti batteri possono stare in una goccia di liquido?

-         Facciamo cinquanta milioni?

-         OK!

-         Quale città fondò il re Mida?

-         Ancyra, poi fu chiamata Ankara. Chi diceva sempre “far economie fino all’osso”?

-         Quintino Sella. Che significava SS?

-         Troppo facile: Schutz Staffeln. E perché gli atleti si depilavano le gambe?

-         Per potersi sottoporre tranquillamente ai massaggi. Perché i pesci negli acquari non urtano mai contro il vetro, eppure non lo vedono.

-         Perché sono dotati di organi detti “della linea laterale” che permettono di percepire le vibrazioni che si hanno nell’acqua, pertanto….

-         Ferma! Basta così.

-         Quale poeta quando frequentava il Trinity College di Cambridge era solito andarsene a spasso con un orso ammaestrato?

-         George Byron. Se dovevano affrontare in viaggio per mare non si tagliavano  né unghie né capelli, con le credenza che questo avrebbe evitato i naufragi.

-         Gli antichi romani. La musica è la tua esperienza, i tuoi pensieri, la tua comprensione delle cose.

-         Charlie Parker. Uno lo crocifissero e l’altro impacchettava di tutto.

-         Cristo e Christo. L’ideatore della mail art.

-         Ray Johnson. Come si chiamavano i primi abitanti di Rapa Nui?

-         L’isola di Pasqua?

-         Sì gli abitanti di quell’isola.

-         Aspetta che ora mi viene in mente…….. 

-          

 

LE STELLE MARINE

 

Era una esplorazione di routine condotta dal Professore ed alcuni studenti che lo seguivano nell’Università riaperta. Stavano tutti assieme facendo la planimetria di una serie di tubi che s’intersecavano con alte ciminiere, quando si trovarono davanti ad una cisterna rotonda, molto ampia che affiorava dal terreno non più di un metro.

La cisterna era costruita di un materiale molto simile al cemento armato ed una parte di essa si era a lato sgretolata, sì che era possibile penetrare all’interno. Il Professore e due studenti entrarono con tutte le precauzioni del caso e subito si accorsero che all’interno vi era una strana luminescenza che dava sul violetto. Piante a foglie larghe, forse un qualche tipo di felce ricoprivano l’intera cisterna. Con precauzione una foglia fu raccolta e posta in un apposito contenitore. La fluorescenza veniva proprio dalle felci ed il loro colore alla luce normale era azzurro. Alle pareti della cisterna videro ad un tratto delle stelle anch’esse fluorescenti che lentamente si muovevano. Rimasero stupefatti quando le osservarono da vicino: erano stelle a cinque o sette punte, delle dimensioni d’un pugno, di color azzurro, traslucide, trasparenti, ad una prima occhiata ricordavano le stelle marine. Non vi doveva però essere alcuna somiglianza biologica con esse, perché in effetti, a parte la simmetria radiale, si muovevano e si comportavano come le lumache e lasciavano pure al loro passaggio una scia di bava.

La bava fu analizzata sul posto e risultò estremamente acida, anzi pericolosamente acida, sì che riuscì a corrodere anche il supporto vetroso su cui era stata raccolta. Le stelle furono osservate a lungo e le loro capacità caustiche risultarono estremamente rilevanti, fu notato che si cibavano delle felci e che se si avvicinavano troppo alla luce esterna morivano, sciogliendosi in un liquido acido.

Fu deciso che questi due generi mutanti richiedevano ulteriori studi ed approfondimenti, ma l’intera zona della cisterna fu sbarrata come potenzialmente pericolosa e segnalata sulle carte come interdetta.

La cartografia della zona fu ripresa e le ciminiere ed i tubi furono lasciati alla prossima squadra di demolizione che col disgregatore molecolare l’avrebbero ridotti in polvere. Il disgregatore molecolare era infatti un’altra delle apparecchiature sperimentali che erano state portate dall’Università nell’Opificio e che venivano usate dagli studenti per la bonifica del posto.

 

 

L’AIRSTREM DISTRUTTA E L’INVITO INASPETTATO

 

Una squadra che era in avanscoperta con l’airstream, formata da cinque studenti non aveva più dato cenni di vita da tre giorni. Fu allora inviato un gruppo di ricerca composto da Francois, Carlos e Felicita che a cavallo partirono spediti. Avevano con loro solo acqua, qualche tavoletta energetica ed armi leggere. Quando arrivarono nel luogo ove il caravan avrebbe dovuto trovarsi, al suo posto trovarono solo un grande solco, come se qualcuno avesse spostato l’automezzo trascinandolo. Seguirono il solco che zigzagava tra cumuli di detriti indecifrabili e giunsero ad un avvallamento ove ciò che restava del caravan era davanti ai loro occhi. Il mezzo era stato come strappato un tanti pezzi, piccoli e grandi, come se fosse stato di carta. Tutto era sminuzzato, ma dei cinque studenti nessuna traccia. Francois, Carlos e Felicita rimasero allibiti davanti allo spettacolo, smontarono da cavallo e perlustrarono la zona cosparsa di rottami. Dopo aver a lungo cercato, anche nei dintorni, chiamato ad alta voce, decisero di tornare alla Base e di dare la notizia agli altri. L’Opificio non era per nulla domato, mille pericoli potevano nascondersi dietro ogni angolo, mai si doveva abbassare la guardia. Qualcuno o qualcosa, d’estrema potenza, aveva ucciso o rapito i cinque studenti.

Francois era da poco tornato alla Base ed in cucina stava bevendo un caffè assieme a Rezia quando vide entrare nella stanza una lucciola. La guardò attentamente, non era un insetto come aveva prima pensato, ma solo la luce intermittente senza corpo. Un tempo si usavano e-mail di questo tipo ed uno poteva leggerle col proprio impianto neurale, ma questa era una tecnica abbandonata da tempo che si vedeva solo negli olofilm e si leggeva nei racconti. Francois allora prese uno scanner dal suo PC e lesse l’e-mail. Sullo schermo apparve un filmato, era l’immagine della Dea che invitava lui e Rezia a prendere un tè nella cupola. L’invito era per oggi.

La convocazione, anche se per un tè era una vera sorpresa, Francois mai e poi mai si sarebbe aspettato una cosa del genere. La Dea sembrava così aliena, così poco propensa anche solo a considerare le altre persone, anzi sembrava proprio non voler avere alcun contatto con loro. Rezia e Francois si vestirono con abiti adatti a cavalcare e salirono sui loro destrieri. Giunsero al trotto in vista della cupola e videro la Dea assieme ad un’altra bellissima donna, o dea, o cosa diavolo fossero.

Anche l’altra era abbigliata come la Dea con quella muta trasparente incollata alla pelle che le faceva sembrare nude e liquide e che esaltava ancor di più in maniera provocante le loro forme.

Si avvicinarono alla cupola sempre cavalcando e questa volta la barriera energetica non si manifestò con la sua caratteristica respingente.

Si fermarono davanti ad un’aiola e stavano legando i cavalli ad una staccionata quando le due dee vennero verso di loro sorridenti.

-         Ben arrivati!

-         Grazie per l’invito, io sono Francois e questa è Rezia.

-         Conosco già i vostri nomi, io sono Flavia anche se mi chiamate la Dea e ne sono lusingata. Questa è Tilde, non l’avete mai vista perché è arrivata solo ieri qui a trovarmi: io discendo da lei.

-         E’ un piacere conoscervi ed un onore aver ricevuto un vostro invito. Anche noi avremmo voluto da tempo invitarvi, ma la vostra barriera energetica ci ha sempre tenuti a distanza.

-         Sapete, in questo posto le precauzioni non sono mai troppe, ma accomodatevi con noi in veranda, l’acqua sta già bollendo ed il tè che getteremo è senz’altro il migliore del pianeta.

-         Grazie.

-         Le farfalle!

-         Cosa?

-         Le farfalle vi hanno seguito ed ora sono sopra i nostri fiori.

-         Sì, ci seguono sempre, da quando le abbiamo scoperte, ma se non siete ostili con loro esse sono innocue e ci allietano con la loro presenza e con le evoluzioni.

-         Le volevamo anche noi qui, ma non sono mai venute, questa è la prima volta.

-         Ora ci sono, semprechè non tornino indietro con noi. Ma non credo.

Il tè fu gettato nell’acqua del bollitore e poco dopo servito accompagnato da vassoi di piccolissimi ma squisiti dolci. Francois osservava stupefatto le due donne, così belle e con quella guaina trasparente che metteva in risalto le loro nudità. Stava proprio osservando con la massima attenzione il sesso di Tilde e lei se n’accorse e per nulla imbarazzata gli sorrise aprendo ancor di più le sue gambe per farlo osservare meglio.

Rezia si accorse di questo ma non disse nulla, intanto Flava osservava con la massima attenzione le farfalle mentre sorseggiava il tè. Rezia con curiosità prese in mano un oggetto che sembrava un libro rilegato in pelle, ma sulla sua superficie, al contatto cominciarono a scorrere immagini in movimento.

All’interno della cupola l’atmosfera era quanto mai rilassata e Francois solo allora s’accorse d’una dolce melodia che sembrava pervadere tutto l’ambiente. Poi tutto si fece confuso e la realtà sembrò farsi sempre più liquida, più morbida e meno concreta. C’era come un senso di fusione generalizzato e le menti dei presenti sembravano amalgamarsi tra loro ed una conversazione con scambio d’immagini e di sensazioni ebbe inizio. Tilde, Flavia ed un’intelligenza diffusa, forse artificiale stavano comunicando con loro senza parole ed adesso senza neppure immagini ma solo con i concetti. Era come se le identità fossero divenute solo delle strutture culturali ed una volta cancellate quelle sorgeva un pensiero comune che comprendeva le conoscenze dei presenti, e non solo di quelli.

Solo dopo un certo lasso di tempo l’effetto svanì e Rezia e Francois se ne tornarono alla Base riflettendo sull’esperienza avuta.

Francois rimuginava su ciò che aveva appreso quel giorno anche se non capiva come fossero tutti entrati in quel gioco: droghe? neuroinduttori? telepatia?

Molte cose comunque gli stavano frullando per la testa, cose apprese proprio in quell’esperienza: le due donne erano in realtà un’identità sola antica e potente, i loro sogni, i loro giochi erano anche la realtà. Loro mutavano a piacere i piani dell’esistente. Ma questo era vero o avevano voluto farglielo credere?

Erano in parte anche umane e li avrebbero aiutati nella loro opera di conoscenza dei luoghi e di bonifica. C’era poi uno scopo per giustificare la presenza di Flavia nell’Opificio, ma neppure lei sapeva qual’era, ed era lì apposta per scoprirlo. Man mano che analizzava l’esperienza avuta e che i ricordi riaffioravano, Francois si rese conto che gli avevano indicato due zone precise dell’Opificio, una da evitare accuratamente ed un’altra ove invece avrebbero fatto dei ritrovamenti per loro utilissimi. Ma ripensando al pomeriggio trascorso nella cupola Francois ad un tratto si rese conto, con meraviglia di qual’era stato il motivo autentico dell’invito. Le farfalle! Tilde e Flavia volevano le belle farfalle anche sulle loro aiole. Tutto il resto erta stato fatto per ringraziarli d’aver portato le farfalle!

Rezia era ancora confusa e perplessa dall’incontro, l’accoglienza era stata cordiale, il tè ottimo, la commistione dei pensieri era forse dovuta ad una droga, nel tè? In ogni caso loro avevano dato dei buoni consigli ed avevano dimostrato d’esser amiche. Tilde forse un po’ troppo con Francois, ma si rese conto di non essere minimamente gelosa. Rezia si ripromise che sarebbe tornata quanto prima a trovarle, magari questa volta da sola. Ed era ancora perplessa per come all’improvviso s’era ritrovata con Francois a cavalcare sulla strada del ritorno.

Tilde e Flavia stavano ancora osservando il volo delle farfalle che proseguiva anche al tramonto e che adesso non erano solo sulle aiole ma anche sopra il prato, una addirittura era penetrata all’interno della cupola e dopo aver svolazzato per l'ambiente si era adesso posata su un larga foglia verde d’una pianta ornamentale che stava accanto ad un tavolo di cristallo.

Avevano intanto riattivato la barriera energetica, ma le farfalle come altri animali che loro avevano selezionato potevano entrare ed uscire a loro piacimento.

Flavia ripensava anche al messaggio sessuale che inconsciamente Francois le aveva trasmesso, era stato molto piacevole e ci avrebbe in seguito ripensato con calma.

Francois intanto si stava rigirando nel suo letto e non riusciva a togliersi di mente il pomeriggio trascorso. Si accorse che i due percorsi per raggiungere le zone segnalate, quella dei ritrovamenti importanti e quella da evitare ad ogni costo, erano ben impresse nella sua memoria. L’indomani per prima cosa avrebbe al computer steso la cartografia e poi avrebbe pensato ad organizzare l’esplorazione. Raggiungere la zona dei ritrovamenti avrebbe dovuto essere abbastanza facile poiché distava solo una diecina di chilometri da dove erano gia giunti i controlli, era cioè all’incirca a trenta chilometri dalla Base. Più problematico era giungere nella zona da evitare, poiché dai primi calcoli a memoria, era all’incirca lontana duecento chilometri dalla zona controllata, ma Francois era sicuro che avrebbe trovato la maniera di giungere fin lì: le zone proibite avevano sempre avuto un fascino particolare per lui. Ma il sonno tardava, aveva anche un’altra sensazione, quasi una certezza, le dee avevano dato un “dono” sia a lui sia a Rezia, ma non riusciva a ricordare cosa: una strana facoltà mentale?

 

LA ZONA DEI RITROVAMENTI

 

A cavallo partirono in sei per raggiungere il luogo indicato del ritrovamento. Era ovviamente il Professore, che ormai aveva ritrovato tutto il suo smalto accademico, dopo gli anni sabbatici da barbone, a guidare la spedizione e s’era portato dietro tre dei suoi nuovi studenti, assieme a loro c’erano Francois e Carlos.

Rezia e Felicita avevano alcune cose urgenti, da donne, da sbrigare alla base, ma sarebbero partite dopo di loro, tanto anche Rezia aveva memorizzato il tragitto e per maggior sicurezza avevano con loro la cartografia stesa da Francois.

Tutti avevano posanti zaini stracolmi di strumentazioni ed armi a tracolla, il Professore non voleva, giustamente, lasciare nulla al caso ed ogni nuovo tratto veniva attentamente scannerizzato. Ormai n’erano tutti coscienti, nell’Opificio occorreva usare la massima prudenza, chi trascurava la sicurezza, in questo posto non sarebbe durato a lungo: anche altre trappole col filo monomolecolare erano state scoperte a custodia di un magazzino, che era tra l’altro completamente vuoto e per puro caso nessuno s’era fatto male.

Il percorso indicato dalle dee si dimostrò in ogni modo sicuro e quando tutti arrivarono si resero conto che erano giunti ad un ennesimo anonimo hangar uguale a mille altri. Non c’era però alcuna apertura evidente e tutta la squadra dovette a lungo scandagliare l’intero perimetro per trovare un punto d’accesso. Ad occhio nudo non si scorgeva nulla, il muro perimetrale non presentava niente di visibile, ma una porta c’era e gli strumenti la segnalarono. Dopo vari inutili tentativi d’effrazione si decise d’usare un raggio laser: il treppiede fu montato, le batterie collegate ed in breve tempo la parete fu tagliata seguendo le linee del portale. Per qualche minuto, eseguito il taglio, non successe niente, poi all’improvviso con un sordo tonfo la sezione tagliata cadde all’interno alzando una nube di polvere e restò per terra senza spezzarsi.

Gli strumenti scandagliarono l’interno e furono scoperti altri cinque piani nel sottosuolo.

Rezia e Felicita erano giunte proprio nel momento in cui s’iniziò l’esplorazione dell’hangar, che era stivato d’oggetti. E gli oggetti risultarono tutti uguali: una bolla di plastica trasparente con quattro sedili all’interno, due davanti e due dietro, muniti di quattro ruote. I colori delle bolle e delle carrozzerie variavano e sembrava non ce ne fossero due uguali. In un angolo di ogni bolla trasparente c’era ovviamente il solito logo: AZULH®. Con la massima attenzione una bolla fu portata all’esterno e risultò sufficientemente semplice far sollevare la cupola ed accedere ai quattro sedili.

Quando il sedile anteriore di destra fu occupato, s’era seduto un allievo del professore, si materializzò una console dai comandi semplicissimi, solo cinque pulsanti. Senza esitazione lo studente mise le dita della mano destra sui cinque pulsanti schiacciandoli, ed il mezzo si mosse. Prima lentamente, poi accelerò, curvò, tornò indietro e si fermò davanti al Professore nello stesso punto da cui era partito.

-         Questo sì che è un ritrovamento interessante!

Esclamò il Professore e dopo aver fatto scendere l’occupante, munito dei suoi strumenti cominciò ad armeggiare sotto la bolla.

-         Noi intanto controlliamo la sicurezza e poi gli altri piani.

-         Contatele anche le bolle!

Così tutti si misero al lavoro, queste bolle avrebbero potuto esser vendute agli abitanti del Villaggio, ed a caro prezzo, visto che non possedevano grandi mezzi di trasporto, se non qualche antica auto, dei camion, le biciclette e qualche cavallo. Intanto il Professore aiutato da Carlos aveva fatto un’accurata analisi della bolla, ci chiamarono tutti e ci comunicarono i risultati.

-         E’ ovviamente un mezzo di trasporto per quattro persone, può raggiungere una velocità di novanta chilometri l’ora, funziona con l’antigravità, non mi chiedete come perché non lo so ancora, ma le sue riserve d’energia sono illimitate, in parole povere, finchè non si rompe, cammina. Per ora non credo che nessuno saprebbe ripararlo se si guasta, parlo del “motore”, non delle gomme, della trasmissione o della console.

Tutti applaudirono e Francois aggiunse:

-         Ce ne sono a migliaia di questi cosi sia qui nell’hangar che nei tre piani sotterranei. Gli altri due piani invece hanno delle bolle stivate un po’ diverse. Aspettatemi tutti qui e se sono quello che penso vi darò una sorpresa alla grande.

Scese lungo una rampa molto ampia simile a quella degli antichi parcheggi sotterranei e che per ora era stata un po’ illuminata con numerosi punti luce che avevano tolto dagli zaini.

-         Non preoccupatevi ed aspettatemi tutti qui, senza muovervi!

Gridò Francois mentre di corsa scendeva. L’attesa si prolungò per una diecina di minuti, e già qualcuno voleva scendere per vedere cosa combinasse, ma videro risalire dalla rampa lentamente un’altra bolla verde chiaro con dentro Francois alla guida. Quando la bolla giunse all’altezza del pavimento dell’hangar, tutti ebbero una grande sorpresa. La bolla non poggiava a terra sulle quattro ruote, ma se ne stava sospesa nell’aria, poi si sollevò ulteriormente fino ad arrivare ad un paio di metri e silenziosamente iniziò a svolazzare sopra le altre bolle e sopra le teste dei coloni per poi tornare rasente al suolo ed infilare l’uscita. Si fermò sollevata da terra d’una quindicina di centimetri parcheggiata accanto all’altra bolla che si trovava all’esterno.

Tutti erano rimasti a bocca aperta, ma considerando che era l’antigravità a far muovere le bolle, tutto questo c’era da aspettarselo.

-         Incedibile! disse Francois, e ce ne sono giù a migliaia stivate negli ultimi due piani. Coi cavalli avevamo messo in pensione le biciclette, ed ora con le bolle faremo riposare i nostri cavalli!

Gli sviluppi della scoperta furono rilevanti, tutto si semplificò nell’Opificio e la vendita dei mezzi, per ora solo quelli a quattro ruote, agli abitanti del Villaggio, fu ridotta a pochi esemplari ed a prezzi altissimi.

Dodici studenti dell’Università si trasferirono nell’hangar poiché erano stati scoperti altri piani adiacenti a quelli interrati, stracolmi di macchinari. Si pensava che fossero linee di costruzione delle bolle e gli studi per attivarle si svolgevano a pieno ritmo.

Questi macchinari sicuramente servivano per costruire i pezzi delle bolle e poi assemblarle, o almeno di certo per costruire alcune delle parti, e poi senz’altro per l’assemblaggio.

L’hangar in breve divenne una facoltà distaccata dell’Università, pericoli non ne furono trovati a parte una stanza blindata che resistette ad ogni tentativo d’apertura, respingendo ogni tipo di raggio col quale veniva colpita – tre studenti finirono all’ospedale con fratture ed ustioni, ma nessuno di loro fu considerato grave. La stanza era sicuramente una cassaforte e poteva contenere valori o documenti, o forse la memoria centrale di tutti i computer di quella fabbrica, oppure avrebbe potuto contenere anche qualcosa di estremamente pericoloso, decisero comunque che finchè non fossero stati compiuti ulteriori studi non vi sarebbero stati altri tentativi per aprire la cassaforte.

 

IL NEONATO

 

Fu una sorpresa che nessuno s’aspettava: quella notte tutti gli allarmi avevano suonato ed i cani della Base sembravano impazziti. Vi era stata un’intrusione non autorizzata nell’area, esattamente alle 3.02 e vari estranei si erano tenuti nel perimetro protetto fino alle 3.20, poi erano spariti senza lasciare tracce evidenti. Le telecamere avevano registrato solo delle ombre, delle vaghe figure umane che s’erano mosse furtive nell’ombra utilizzando tutti gli espedienti per non essere riprese. Ove si erano verificate le intrusioni, le luci s’erano infatti spente e le telecamere al buio avevano ripreso ben poco. Le luci s’erano poi riaccese dopo il passaggio come se gli intrusi avessero quelli “spengini” di cui parla la letteratura fantastica per ragazzi. Le poche telecamere ad infrarossi erano state anch’esse volutamente disturbate da fonti anormali di calore.

Tirando le somme si può solo dire che per diciotto minuti quella notte, almeno otto intrusi, sicuramente umanoidi, s’erano aggirati indisturbati all’interno della sorvegliatissima Base. Ma la cosa più evidente e sconcertante era che gli otto avevano lasciato qualcosa all’interno della Base stessa, proprio davanti alla porta di una delle abitazioni nel cuore preciso dell’avamposto: una bellissima bambina di pochi mesi avvolta in una coperta di lana verde. La bambina era perfettamente normale coi capelli color biondo e sorridente: subì un primo esame all’Università e risultò normalissima, anche l’Ospedale non riscontrò alcuna anomalia. Il Professore e Federica che adesso abitavano assieme un po’ nell’airstream spinta da una bolla a ruote ed un po’ in un alloggio alla Base, decisero d’adottarla e di crescerla: le dettero il nome di Tabitha.

Alla base c’erano già due maschietti di pochi mesi figli di due studentesse, ed una bimba di tre anni che aveva seguito il padre. Una nuova generazione di coloni si stava formando.

Ma il mistero della bimba rimase, chi l’aveva portata? Uomini o umanoidi che provenivano dall’interno dell’Opificio. Poteva esser un cavallo di Troia?

Francois chiese anche alle dee se sapevano da dove provenisse e loro dissero che ad una trentina di chilometri dalle zone esplorate c’era una tribù di mutanti, nomadi che provenivano dall’interno, forse discendenti d’alcuni operai rimasti intrappolati all’interno: con ogni probabilità la bambina era nata “normale” e loro l’avevano riportata a quelli della sua specie.

Questa spiegazione risolse parecchie delle domande, ma ne pose di nuove sul patrimonio genetico della bambine: ma ogni analisi aveva dato risultato favorevole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.continua