di Vittorio Baccelli
Sicuramente la poetica di Dino Campana è da
considerarsi tra le più intriganti e complesse della poesia italiana del 900. Il
Poeta si addentra nell'esistenza con un occhio diverso e la realtà appare nella
sua crudezza. Cadono i veli dell'inganno e ciò che è si dimostra della sua
nudità. La sua geniale follia lo fa ergere a gigante rispetto agli altri coevi
poeti. La difficoltà nelle interpretazioni non scoraggia il lettore, ma anzi lo
avvince affascinandolo. Mai come in questo terzo millennio, la sua poetica è
attuale. L'interpretazione che ne da Carmelo Bene è semplicemente fantastica. (V.B.
su IBS.IT)
Dino Campana (Marradi 1885, Castel Pulci 1932) era figlio di Giovanni,
insegnante di scuola elementare, uomo per bene ma di
carattere debole e nevrotico, e di Fanny Luti, donna compulsiva e severa,
affetta da mania deambulatoria, attaccata in modo morboso al figlio Manlio,
fratello minore di Dino, natole nel 1887.
Trascorse l’infanzia in modo apparentemente sereno a Marradi ma, a circa
quindici anni d’età, gli furono diagnosticati i primi disturbi nervosi che non
gli impedirono in ogni modo di frequentare i vari cicli di scuola.
Frequentò le elementari a Marradi, la terza, quarta e quinta ginnasio presso il
collegio dei Salesiani di Faenza, poi gli studi liceali in parte presso il Liceo
Torricelli della stessa città, in parte a Carmagnola in Piemonte presso un altro
collegio, ma quando rientrò a Marradi, le crisi nervose si acuirono come pure i
frequenti sbalzi d’umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia
(soprattutto con la madre) e il paese.
Il futuro poeta a Carmagnola ottenne la licenza liceale. Nel 1903 s’iscrisse
presso l’Università di Bologna, alla Facoltà di Chimica pura, per passare -
l’anno seguente - alla Facoltà di Chimica farmaceutica a Firenze, ma non riuscì
a portare a termine la sua carriera scolastica per le difficoltà a trovare un
ordine interiore e una sua vera identificazione. Il suo unico punto di
riferimento fu la poesia e alla poesia dedicò e sacrificò - tra esaltazione e
disperata follia - i suoi giorni.
Egli espresse la sua “diversità” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e
dedicarsi ad una vita errabonda. La prima reazione della famiglia e del paese, e
poi dell’autorità pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana
come segni lampanti della sua pazzia. Ad ogni sua “fuga”, che si realizzava con
viaggi in paesi stranieri ove esercitava i mestieri più disparati per
sostenersi, seguiva, da parte della polizia (in conformità con il sistema
psichiatrico di quei tempi e per le incertezze dei familiari), il ricovero in
manicomio. Tra il maggio e il luglio del 1906, Campana compì una prima fuga in
Svizzera e in Francia che si concluse con l’arresto a Bardonecchia e il ricovero
ad Imola.
Nel 1907, i genitori di Campana non seppero più cosa fare di fronte alla follia
del figlio e lo mandarono in America Latina presso una famiglia di compaesani
emigrati (forse dei parenti). Non si trattò di una “fuga” del poeta, dato che
non avrebbe potuto ottenere da solo un passaporto per il Nuovo Mondo perché era
già ritenuto ufficialmente “pazzo”. È la sua famiglia che gli procurò il
passaporto e gli organizzò il viaggio, e Dino partì per la paura di dover
tornare in manicomio. I coniugi Campana sostennero di averlo mandato in America
con la speranza che questo viaggio lo potesse guarire, ma sembra che il
passaporto fosse valido solo per l’andata, perciò si trattò probabilmente
(anche) di un tentativo di sbarazzarsi di lui, poiché la convivenza con Dino era
ormai divenuta insopportabile per tutti.
Il viaggio in America rappresenta un punto particolarmente oscuro della
biografia di Campana: se alcuni arrivano a chiamarlo “il poeta dei due mondi”,
c’è anche chi invece sostiene che, in America, Campana non ci andò neppure.
Numerose sono anche le opinioni sulla datazione del viaggio e sulle modalità e
il tragitto del ritorno.
L’ipotesi più accreditata è che sia partito nell’autunno 1907 da Genova e abbia
vagabondato per l’Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricomparve a
Marradi, ove fu nuovamente arrestato. Dopo un breve internamento al San Salvi di
Firenze, partì per un viaggio in Belgio, ma venne di nuovo arrestato a Bruxelles
e poi internato nella “Maison de santé” di Tournai all’inizio del 1910. Chiese
aiuto alla sua famiglia e fu rimandato a Marradi.
Tra il 1912 e il 1913 Campana compose i versi che diverranno poi (dopo alterne
vicende e diverse riscritture) la sua opera più significativa: i “Canti
Orfici”, una raccolta che contiene un poema in due parti (La notte),
sette poesie intitolate I notturni, una prosa diaristica su di un
viaggio alla Verna e altre dieci fra poesie e prose liriche. Segue una sezione
di Varie che comprende due frammenti, sette prose liriche e (in sette
parti) il poemetto Genova. (In quest’ultima sezione fu inserita dopo la
morte di Campana una lirica di Luisa Giaconi, poetessa che l’aveva molto
colpito. Questo fu dovuto ad un errore di attribuzione dell’editore, cui Campana
l’aveva entusiasticamente inviata, senza menzionare con chiarezza il nome
dell’autrice. Dopo alcuni anni, la poesia è stata correttamente attribuita e
tolta dai Canti Orfici.
Nel 1913 si recò a Firenze presentandosi alla redazione della rivista futurista
“Lacerba” ove incontrò Giovanni Papini e Ardengo Soffici, ai quali
consegnò il suo manoscritto dal titolo “Il più lungo giorno“. Non fu
preso in considerazione e il manoscritto andò perduto (sarà ritrovato solamente
nel 1971 tra le carte di Soffici dalla moglie di quest’ultimo che stava
riordinando le carte dopo la morte del marito).
Disperato per la perdita essendo stato il manoscritto in unica copia, riscrisse
a memoria i suoi testi, con modifiche e aggiunte, che pubblicò nel 1914, a
proprie spese, con il titolo, appunto, di “Canti Orfici”. Il 1915 lo
trascorse viaggiando senza una meta fissa: Torino, Domodossola, ancora Firenze.
Nel 1916 ricercò inutilmente un impiego. Scrisse a Emilio Cecchi (che sarà,
insieme a Giovanni Boine - che comprese subito l’importanza di Campana
recensendo i Canti Orfici nel 1914 (in “Plausi e Botti”) - e a Giuseppe De
Robertis, uno dei suoi pochi estimatori) e iniziò con lo scrittore una breve
corrispondenza. A Livorno si scontrò con il giornalista Athos Gastone Banti, che
scrisse su di lui un articolo denigratorio sul giornale “Il Telegrafo”: si
arrivò quasi al duello. Nello stesso anno conobbe Sibilla Aleramo, l’autrice del
romanzo Una donna e iniziò con lei un’intensa e tumultuosa relazione,
che s’interromperà all’inizio del 1917 dopo un breve incontro nel Natale 1916 a
Marradi.
Abbiamo testimonianza della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla, da un tragico
carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore -
Lettere 1916-1918.
Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo datata 10 giugno 1916, nel
quale l’autrice esprime la sua ammirazione per i “Canti Orfici”,
dichiarando di esserne stata incantata e abbagliata insieme. Sibilla
era allora in vacanza nella Villa La Topaia a Borgo San Lorenzo, mentre Campana
era in una stazione climatica presso Firenzuola per rimettersi in salute dopo
essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro del corpo.
Nel 1918 fu internato presso l’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso
Scandicci (Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani lo andò a trovare per
intervistarlo. Nel 1938 la casa editrice Vallecchi pubblicherà “Vite non
romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore”.
Dino Campana morì, sembra per una forma di setticemia dovuta ad una malattia mai
ben chiarita, il primo marzo del 1932, la salma fu sepolta nel cimitero di San
Colombano nel territorio di Scandicci.
Il 3 marzo 1942, su interessamento di Piero Bargellini la salma fu tumulata
nella cappella sottostante il campanile della chiesa di Badia a Settimo.
Purtroppo, durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, i tedeschi, in
ritirata, fecero saltare con una carica esplosiva il campanile distruggendo nel
contempo anche la cappella. Solo nel 1946 le ossa del poeta raggiunsero la loro
ultima dimora, all’interno della Chiesa di Badia a Settimo.
La poesia di Campana è una poesia nuova nella quale si amalgamano i
suoni, i colori e la musica in potenti bagliori. Il verso è indefinito,
l’articolazione espressiva in un certo senso monotona ma nel contempo ricca di
immagini molto forti di annientamento e purezza. Il titolo della sua principale
opera allude agli inni orfici, genere letterario attestato nell’antica Grecia
tra il II e il III secolo d.C. e caratterizzato da una diversa teogonia rispetto
a quella classica. Inoltre le preghiere agli dei (in particolare al dio
Protogono) sono caratterizzate dagli scongiuri dal male e dalle sciagure.
Sembra un assurdo, ma anche oggi, tra gli scrittori e i poeti esiste ancora una
totale ignoranza di uno dei più significativi aedi del secolo: Dino Campana.
Qualche anno fa non ci si meravigliava, visto che anche Sapegno ne fa solo un
cenno, dopo una decina di righe di biografia, senza parlare della sua opera e
quando lo fa, lo paragona a Rimbaud. Solo dal 1968 si è cominciato a parlare di
questa nuova figura di poeta, chiamato in causa dal Falqui in «Novecento
Letterario» in un saggio dal titolo «Campaniana», iniziando così una ricerca, da
parte dei critici che dura fino ad oggi. Molti hanno parlato di quel carteggio
d’amore tra lui e Sibilla Aleramo, del loro amore turbinoso come un ghibli,
violento come un tornado, appassionato come il canto del mare in una notte di
luna piena (sì, perché in quelle notti le onde del mare non cantano, ma suonano
sinfonie indimenticabili). Parlando di questo amore trascriviamo la poesia,
forse più bella che Dino abbia scritto per Sibilla:
«Vi amai per la città dove per sole
strade si posa il passo illanguidito
dove una pace tenera che piove
a sera il cuore non sazio e non pentito
volge a un’ambigua primavera in viole
lontane sopra il cielo impallidito».
Dunque neppure gli scrittori e i poeti conoscono bene e, alcuni affatto, il poeta Dino Campana, forse perché i critici ne hanno parlato poco, perché si sono sentiti infastiditi dall’impiego indiscriminato che Dino faceva di certa terminologia “all’acqua di rose”, a volte anche sgrammaticata, e quindi non riuscivano ad avere il coraggio per definire la sua poesia, perché saltava agli occhi e penetrava nel cuore la linfa sanguigna che da quei versi zampillava. È per questo che la poesia è scarna, scabra, secca, bruciata, pietrosa, come molti la definiscono, a volte languida e delirante come il bambino che non avverte più l’odore della presenza della mamma. C’è una richiesta a bocca spalancata, una voce tonante come la tromba di Gerico, che grida a squarciagola, affetto, amore, compagnia.
La Chimera
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
E certo uno spoglio rapidissimo, col passare del tempo, ci rivela il ritorno di certi termini o addirittura di certe espressioni, di certe immagini, che sembrano impresse sulla tela, come se “la nostra anima fosse non più spirito”, ma materia solida e indistruttibile, perché i versi rimangono impressi, con caratteri di fuoco, scritti con un laser. Leggendo la sua opera ci accorgiamo che le parole diventano più asciutte, il Poeta ci parla e il suo dire diviene disegno essenziale, perfino avaro in qualche lirica; si avverte che ci troviamo dinanzi all’urto tragico di un uomo intero, che mendica amore, ma questo non arriva e a lui non rimane, per il momento, che chiamarlo Chimera. E qui è tutta la tragica tensione di un Uomo che va in giro a mendicare un sentimento che dovrebbe essere di tutti.
Giardino autunnale (Firenze)
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto
Ella m’appar, presente.
«Ella m’appar, presente», chiama oltre che l’amore un giudizio critico che non arriva e, per questo prega la fanfara straziante che sale dal fiume, nel silenzio della sera, di sbandierare il suo problema, mentre riaccende la speranza.
La speranza (sul torrente notturno)
Per l’amor dei poeti
Principessa dei sogni segreti
Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti
Principessa i tuoi canti:
O tu chiomata di muti canti
Pallido amor degli erranti
Soffoca gli inestinti pianti
Da tregua agli amori segreti:
Chi le taciturne porte
Guarda che la
Notte
Ha aperte sull’infinito?
Chinan l’ore: col sogno vanito
China la pallida
Sorte…
…………………………………………..
Per l’amor dei poeti, porte
Aperte de la morte
Su l’infinito!
Per l’amor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte.
E Dino Campana, l’elegiaco, il descrittore, e l’interprete delle proprie sensazioni e della propria pena, ora diventa lo storico del suo dolore. Il suo è un lavoro attento e tormentato,che insiste, forse anche troppo sul fatto, che spesso l’equilibrio poetico si regge soltanto sulla perizia del verseggiatore, che abitualmente attenua le discordanze e nasconde le lacune dei passaggi più rischiosi, riuscendo a raggiungere in alcune liriche l’abilità del poeta mai compiaciuta e amata, come Narciso amò la sua immagine.
L’invetriata
La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada?
- c’è Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.
Non bisogna dimenticare che in questa «invetriata» Dino intenda richiamare l’attenzione dei lettori, sia pure in maniera lievemente sfocata, e come le figure metriche tradizionali possano essere adoperate da lui, senz’ombra di profanazione. Con una certa ingenuità ha avvertito l’importanza del problema metrico nello studio della lirica, e per questo ne tiene conto solo come osservatore. Non vuole assolutamente sottostare alle rigide regole della poetica, non ne ha la buona volontà né vuole dedicarsi con profitto allo studio della metrica. Studio quanto mai inutile e vuotamente retorico. Lui tocca rapidamente l’essenza dello spirito umano. Infatti, a prima vista, sembra che abbia voluto purificare il suo vocabolario e l’istinto melodico dell’io creativo, bandendo il sé razionale dal suo poetare. Sente che le sue poesie non danno l’impressione del nudo, ma piuttosto del riempitivo. I versi non sono solamente essenziali, ma mostrano, con misteriose allusioni, le immagini, il dolore, l’anima sanguinante che bagna la terra dove cammina.
Il canto della tenebra
La luce del crepuscolo si attenua:
Inquieti spiriti sia dolce la tenebra
Al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare…
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
Ascolta: ti ha vinto la
Sorte:
Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
Intendi la dolce fanciulla
Che dice all’orecchio: Più Più
Ed ecco si leva e scompare
II vento: ecco torna dal mare
Ed ecco sentiamo ansimare
II cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
Degli alberi e l’acque è notturno
II fiume va via taciturno…
Pùm! mamma quell’omo lassù!
In principio, avendo piene le orecchie delle voci e degli echi che si rincorrevano nella vallata, o della melodia che sussurrava il vento tra gli alberi, oppure delle variegate melodie degli uccelli, faceva nascere questa poesia che rappresenta la sentimentale reazione, per dare luogo e sfogo al cuore che canta un ritmo sincopato. La poesia di Campana non può ridursi a formula metrica: non vi predomina l’endecasillabo, non ha il suo regno il settenario, né il novenario; eppure il verso sembra stranamente allungato o accorciato in un misterioso procedimento sillabico, che realizza un tono di armonia imitativa, senza che resti la preoccupazione formale assorbita dalla forza sintetica e dalla sintassi che va a spasso come un cagnolino senza guinzaglio.
La sera di fiera
II cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non e nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.
Anche se oggi, molto sta rapidamente mutando, stiamo obbedendo ad un nostro preciso intento critico: voler spiegare il più semplicemente possibile il canto di Dino Campana affinché i giovani e anche (perché no?) i meno giovani conoscano a fondo l’animo di questo grande della letteratura italiana, volutamente dimenticato, anche se voci sconosciute fanno del loro meglio, senza trovare un interesse specifico da parte di qualche editore importante o di qualche quotidiano che ne divulghi il pensiero. Il nostro intento, dicevo, è quello di dare a Cesare quello che è di Cesare, senza paroloni altisonanti o lacrime di alambicco; sentiamo, o meglio abbiamo assunto il dovere di puntualizzare la natura del canto di Dino Campana, dicendo le cose come le abbiamo sentite pulsare nell’anima.
La petite promenade du poète
Me ne vado per le strade
Strette oscure e misteriose:
Vedo dietro le vetrate
Affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
C’è chi scende brancolando:
Dietro Ì vetri rilucenti
Stan le ciane commentando.
……………………………………
La stradina è solitària:
Non c’è un cane: qualche stella
Nella notte sopra i tetti:
E la notte mi par bella.
E cammino poveretto
Nella notte fantasiosa,
Pur mi sento nella bocca
La saliva disgustosa. Via dal tanfo
Via dal tanfo e per le strade
E cammina e via cammina,
Già le case son più rade.
Trovo l’erba: mi ci stendo
A conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
Canta amore alle persiane.
Di puro bisogno di cantare si può discorrere, crediamo, solo a proposito di una determinata poesia, che è la poesia dell’altra generazione, o razza, cui appartengono Mallarmé, Valéry, Ungaretti, e non Leopardi e Baudelaire. Nel bisogno di cantare di Leopardi o di Baudelaire, della cui razza Dino Campana è il più recente esempio, il bisogno vero e proprio è costituito di altri bisogni, altre sofferenze, provengono dalla negazione del poeta ad accettare un rigore che non sente gli appartenga. I suoi versi a volte aspri, a volte sordi e velati, dove ci si urta in vari echi, non sono mai somiglianti a quelli di quei poeti più stanchi e opachi della sua e della nostra generazione.Noi pensiamo che già il nominare e nominare le cose, sia un vero delirio di nominare; quell’impressione di gemito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto dall’intera raccolta, corrispondono a una certezza di avere la conoscenza del mondo: a volte il delirio della pazzia le fa intuire e conoscere, e conoscendo, ramificare nello spirito e ripeterle poi ai propri simili. Il giardino della vita non è un orto, ma un reliquiario, il mondo è tutto sparso di cose alle quali è connessa una memoria, un ricordo: il poeta che passa sembra un rievocatore di cose morte. Infatti, pur facendo salva la modernità di questo poeta sfortunato, vedremo per molti caratteri come la sua poesia sia classica in quanto a purezza e soprattutto in quanto ad equilibrio di elementi costitutivi. Sibilla Aleramo e Dino Campana sono sicuramente gli innamorati più irruenti della letteratura italiana. Cominciamo col conoscerli, ricordando le parole che Dino pronunciò sulla letteratura nazionale. E ripensando a quelle parole, come non avere dinanzi agli occhi l’immagine di Nietzsche e del suo libro dal titolo «Umano, troppo umano», dove a pagina 208 parla del «quasi un uomo»? In quell’occasione affermò che «Un libro vive come un essere dotato di spirito e d’anima e tuttavia non è un uomo», e continuava: «È cosa che non finisce mai di sorprendere uno scrittore il fatto che il libro, non appena si sia staccato da lui, continui a vivere una vita per conto proprio; per lui è come se la parte distaccata di un insetto proseguisse il suo cammino, da sola». Ora ditemi, dopo queste affermazioni come si fa a non riconoscere nel libro le caratteristiche che furono dell’uomo, dopo aver riconosciuto nell’uomo le caratteristiche del libro? Potremmo affermare, dunque che Campana proprio perché cosciente dell’affermazione di Nietzsche, definisce la letteratura nazionale: «industria del cadavere». Dino, il matto di Marradi, Dino il trasandato, pensa costantemente all’«industria del cadavere» come istituzione, con le sue elaborazioni critiche che continuamente si rinnovano. A questo stato di cose, Campana contrappone la propria irriducibilità; e la «Letteratura nazionale / Industria del cadavere / Si Salvi Chi Può» stenta ancor oggi ad includerlo nei suoi repertori come presenza consacrata.
Vo alla latrina e vomito (verità)Letteratura nazionale
Industria del cadavere
Si Salvi Chi Può
Nonostante la produzione di Campana e le attenzioni dei campaniani sia ormai imponente specialmente nelle università, nonostante la «pazzia» del poeta fornisca ai critici l’alibi per tenere distinti fra loro il Campana che serve e quello che non serve; vale a dire il pazzo e il sano, il libro e l’uomo.Quando esce il Manifesto dei Futuristi, Campana può sognare un futurismo, cioè un’arte nuova, che faccia risplendere, in Italia,
«un cielo nuovo, un cielo puro,
un cielo metallico ardente di vertigine,
un cielo dove
frati e poeti non abbiano fatto
la tana come i vermi».
Invia poesie a Marinetti, scrive a Papini all’indirizzo di «Lacerba»: «La vostra speranza sia: fondare l’alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze». Naturalmente non gli risponde nessuno e allora lui, nell’autunno del 1913 sbarca a Firenze per incontrare di persona quei suoi contemporanei. Conosce Papini, Soffici, i futuristi milanesi, «i vociani» e forse non comprendendo la vera carica eversiva di F.T.Marinetti proiettata dal futurismo nel futuro (e non solo dell’arte), non comprendendo neppure che l’anarco-fascismo marinettiano sta ridisegnando (inconsapevoli forse anche molti futuristi) l’arte mondiale che verrà, recepisce solo che la logica delle avanguardie artistico-letterarie non è la fondazione dell’«alta coltura» italiana, ma al contrario è la semplificazione estrema dell’arte e della cultura già esistenti. Si scandalizza e scrive articoli e poesie invettive su invettive su queste persone che: «Vogliono creare un’arte nuova per forza di pettate!» L’impatto coi contemporanei lo offende e lo addolora, vede la caduta delle illusioni, e scrive «Ci fu un tempo, prima di prendere conoscenza della civiltà italiana contemporanea, che io potevo scherzare. Ora questa civiltà mi ha messo addosso una serietà terribile. Perciò io sono anche tragico e morale. II popolo d’Italia non canta più. Non vi sembra questa la più grande sciagura nazionale?» Nella mente di Dino, tutto si dilata fino a includere tutta la società letteraria dell’epoca: chiama D’Annunzio «il Vate gramofono», i futuristi rappresentano l’«imperialismo borghese frasaiolo» dell’Italia giolittiana, e di Benedetto Croce dice che è «il campione quando dice arte == espressione, e così via… Nei primi mesi del 1914 pensa di tornare a rifugiarsi in quel tempo senza età, da cui è venuto, accentuando gli aspetti individuali e mistici del proprio essere poeta e accentuando anche la distanza dalla società letteraria italiana e parte per l’estero. Inizia per lui il calvario e si apre la via per il manicomio: aveva dato in lettura la sua raccolta di poesie a Soffici che lo passa a Papini perché anche lui desse il suo parere, ma il manoscritto va perduto. Qui si comincia a vedere il Campana tragicomico alla ricerca del «manoscritto smarrito», il «pazzo» che vuole sfidare Soffici a duello e scrive lettere minacciose a Papini; ma è pronto a salire il calvario per ricordare i versi perduti e pur aggrovigliato nel dolore più immane riscrive tutta la raccolta.
* * *
Uno dei temi maggiori di Campana, che si trova già all’inizio dei “Canti
Orfici” nelle prime parti in prosa - La notte e Il viaggio e
il ritorno - è quello dell’oscurità tra il sogno e la veglia. Gli aggettivi
e gli avverbi ritornano con una ripetitiva insistenza come di chi detta durante
un sogno, sogno però interrotto da forti trasalimenti (si veda la poesia “L’invetriata“,
mirabile spleen baudelairiano).
Nella seconda parte - nel notturno di “Genova”, ritornano tutti i miti
fondamentali che saranno del Campana successivo: le città portuali, la matrona
barbarica, le enormi prostitute, le pianure ventose, la schiava adolescente.
Già nella prosa si nota l’uso dell’iterazione, l’uso drammatico dei superlativi,
l’effetto d’eco nelle preposizioni, il ricorrere alle parole chiave che creano
una forte scenografia.
Nel quindicennio che va dalla sua morte alla fine della seconda guerra mondiale
(1932-1945) ed anche in seguito, nel periodo dell’espressionismo e del
futurismo, l’interpretazione della poesia di Campana si focalizza sullo spessore
della parola apparentemente incontrollata, nascosta in una zona psichica di
allucinazione e di rovina. Nei suoi versi, dove vi sono elementi deboli di
controllo e di approssimativa scrittura, si avverte - a parere di molti critici
- il vitalismo delle avanguardie del primo decennio del XX secolo; dai suoi
versi, per la verità, hanno attinto poeti molto differenti tra di loro, come
Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto.
Il destino di Campana è stato avvicinato a quello di Rimbaud. Ma, in verità, tra
Campana e il poeta maledetto il punto di contatto (il bisogno di
fuggire, l’idea del viaggio, l’abbandono di un mondo civile estraneo) è
affrontato in modo molto diverso. Dove Rimbaud abbandona la letteratura per
fuggire in Africa e prestarsi a mestieri avventurosi e alternativi, come il
commerciante d’armi (e forse anche di schiavi), Campana alla fine dei suoi
viaggi, senza una vera meta, trova solamente la follia.
E se Rimbaud aveva fatto una scelta, Campana non scelse ma fu sopraffatto dagli
eventi che attraversarono la sua vita diventandone una vittima: senza però mai
disertare la poesia, come, differentemente, aveva fatto il poeta francese.
Campana, fino al suo internamento a Castel Pulci, lotterà per la sua poesia e
per una vita che non era mai riuscita a donargli nulla in termini di serenità e
pace; e anche la strada dell’amore, il suo incontro con Sibilla Aleramo, si
trasformerà in una sconfitta
Come scrive Carlo Bo nel saggio “La nuova poesia: Storia della letteratura
italiana - il Novecento” (Garzanti, 2001):
” … il destino così doloroso di Dino Campana risponde precisamente ad un problema sollevato dal giovane Victor Hugo, verso il 1834. La domanda di questo allora quasi sconosciuto Hugo era: “Jusqu’à quel point le chant appartient à la voix, et la poésie au poète?”. Domanda di un’inesauribile novità e contro cui nulla hanno potuto le innumerevoli esperienze poetiche in più di un secolo, anzi direi che rimane confermata dalle maggiori audacie degli esempi più usati: l’autorizzano Baudelaire, Rimbaud e la storia dei surrealisti. Noi sappiamo i nomi che mancano, quello di Dino Campana va fatto senza timore.”
Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole ad
oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o
meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a
renderle ancora più oscure. Sebbene i canti di Dino Campana affondano ben oltre
il simbolismo francese, fatto di audaci freddi e monotoni alessandrini,
direttamente nelle radici della nostra terra toscana, Campana guarda al Trecento
dantesco, al Cavalcanti al Dante della Commedia fino ad arrivare ai canti del
Foscolo (Giacomo Leopardi ancora non era stato molto diffuso), ed è toccante
l’allusione dantesca con cui Eugenio Montale chiude questa struggente lirica di
stampo prettamente biografico (di Dino Campana si evitava di citare per motivi
piccoli borghesi la sua vita e i suoi amori travagliati nonché il suo pacifismo
antinterventista) e proprio per questo ancor più provocatoria: “fino a quando
riverso a terra cadde!”.
La critica ha spesso indagato e continua ad interrogarsi su quanto vi è di
figurativo nell’opera del poeta di Marradi, conosciuto dall’immaginario come il
poeta folle e visionario.
Nel 1937 Gianfranco Contini scriveva «Campana non è un veggente o un visionario:
è un visivo, che è quasi la cosa inversa». Nei Canti Orfici sussistono infatti
elementi sia visivi che visionari con numerosi riferimenti alla pittura.
Analizzando la funzione che questi aspetti hanno all’interno dell’opera si nota
con evidenza come al lato visionario, con riferimento a Leonardo, a De Chirico e
all’arte toscana, sia affiancato in perfetta coesione quello visivo che trova le
sue allusioni nel futurismo.
Pasolini, che aveva riletto con molta attenzione l’opera di Campana, aveva
scritto «Particolarmente precisa era la sua cultura pittorica: gli apporti nella
sua lingua del gusto cubista e di quello del futurismo figurativo sono
impeccabili. Alcune sue brevi poesie-nature morte sono tra le più riuscite e se
sono alla “manière de” lo sono con un gusto critico di alta qualità».
A proposito poi delle conoscenze leonardesche dell’autore si può leggere, in una
lettera del 12 maggio 1914 scritta da Campana a Soffici da Ginevra «Ho trovato
alcuni studi, purtroppo tedeschi, di psicoanalisi sessuale di Segantini,
Leonardo e altri che contengono cose in Italia inaudite: potrei fargliene un
riassunto per Lacerba».
Sicuramente, la rivalutazione di Campana nei nostri tempi recenti, molto deve
alle letture dei Canti Orfici realizzate da quel genio italico che fu Carmelo
Bene.
* * *
Sono le 5 e 30 di giovedì 3 agosto. Una bella e agile figura femminile
attraversa i campi a passo spedito, mentre il cielo si va colorando dei più bei
colori dell’alba estiva. La donna è diretta alla stazione di Panicaglia, deve
prendere il treno per San Piero a Sieve, distante solo una diecina di chilometri
e, poi la macchina che ogni giorno va verso l’alto Mugello.Le poche persone che
la incrociano non possono fare a meno di notarla. Non solo perché attraversa i
campi da sola, ma perché è bella, molto bella. La fronte ampia, l’ovale del viso
regolare, la bocca sensuale e tragica, la pelle di madreperla e il lungo collo
da cigno che si muove altero sulle spalle. Ha già quarant’anni, ma non li
dimostra, lo denuncia soltanto una ciocca bianca tra il biondo dei capelli,
sopra la tempia sinistra, che lei, tiene volutamente nascosta sotto la falda del
cappello.La donna è Sibilla Aleramo, all’anagrafe Rina Faccio (Alessandria 1876,
Roma 1960) e quel giorno non aveva voglia di raccontarsi, ansiosa com’era di
incontrare Dino Campana, poeta ignoto, destinato a diventare un grande del
Novecento italiano; intanto ora era solo un povero autore che cercava
disperatamente di vendere il suo libro, pubblicato grazie a una sottoscrizione
nel 1914: era la prima edizione dei «Canti Orfici». Lui l’aspettava a Barco -
forse prima, forse dopo Firenzuola. Lo avrebbe chiesto al conducente; le poche
lettere che il poeta le aveva scritto, erano suggestive, quasi sospese, eppure
le riempivano il cuore di simpatia verso questo poeta sconosciuto, ma pieno di
simpatia. Era rimasta affascinata al punto che, mentre la macchina continuava la
strada traballando per la via sconnessa, le pareva di conoscerlo, di vederlo nei
suoi sogni ad occhi aperti. Aveva anche scritto per lui una poesia, senza avere
il coraggio di portarla con sé. Gliel’avevano descritto di pelle rosea e
biondorossiccio di capelli, il naso breve, largo e la bocca forte. Gli occhi
cangianti, alcuni affermavano fossero azzurri, altri grigi, altri ancora,
castani. Alcuni, spettegolando, lo dipingevano come un barbone, con scarpe
enormi legate con lo spago; invece, era solo un solitario, squattrinato come lei
e come spesso accade ai veri artisti. Del suo libro, «Canti Orfici» ne
discutevano tutti però. Sibilla ben sapeva che Campana non aveva mai letto il
suo capolavoro, ma la conosceva per le chiacchiere sulle sue ripetute storie
d’amore. Infatti, la stessa Sibilla racconta: «Che cosa io sarei senza questi
incontri, senza le strade che ho percorso» in «Un amore insolito» dice di
Giovanni Cena, conosciuto nel 1902: «…In un giorno di settembre del 1910 io
lasciai Cena. Il nostro legame s’era già allentato da oltre un anno, ma nessuno
dei due aveva mai creduto che si sarebbe veramente spezzato…» Narra Lina Poletti
, nel 1909 ne «Il passaggio» «…Ella supponeva a se stessa un maschio a cuore; e
foggiata s’era veramente a strana ambiguità… » In «Diario di una donna» narra:
«…Ed ecco un giorno una forma umana singolare mi viene incontro, mi saluta…È per
l’inguarita nostalgia di quel ch’io non sono stata che mi sento attratta ora
verso questa fanciulla dai modi virili…» Nel 1910 scrive di Felice Guglielmo
Damiani, ne «Il passaggio»:«…il tuo viso era chiaro e fiamme erano i tuoi
capelli e bello trovai per la prima volta l’ardore virile…»
Nello stesso anno s’innamora di Vincenzo Cardarelli, del quale in «Lettere
d’amore a Sibilla Aleramo», afferma: «…Pietà… di te ne ho, sì, almeno quanta ne
ho di me, e forse, sì, di più. Io non so quel che c’è di vero in tutto ciò che
contraddittoriamente hai detto e fatto di te e di me fino ad oggi, non lo so e
non lo saprà mai, e accetto Questa oscurità… umilmente, so che sei disgraziato,
che sei infelice, e davanti a questo il lamento per me stessa tace,
istintivamente. Questo è l’amore Vincenzo…» La storia con Vincenzo Cardarelli
dura nemmeno due anni e nel 1912 incontra Giovanni Papi. Di lui in «Sibilla
Aleramo e il suo tempo» si legge: «…La verità… è che tu avevi incontrato una
donna che era uguale per anima e per intelligenza, e che ti era superiore per
carattere, per tempra. E che sei fuggito, perché, sì, sei troppo debole per
l’amore…» e in «Gioie d’occasione e altre ancora» continua: «…Scrivo ad Arno.
Sublimità… puerilità…? Lo amo, d’un amore assurdo…» Sempre nello stesso anno,
dopo pochi mesi passati con Giovanni Papi incontra Joe Lucani e lo ricorda in
«Sibilla Aleramo e il suo tempo» e in «Diario di una donna» «…C’è già un ragazzo
(…) che mi adora…»«…Aveva diciannove anni…e i due più vividi occhi verdemare
ch’io abbia mai veduti..» Nel 1913 è con Vincenzo Gerace, sempre nello stesso
periodo vive con Umberto Boccioni. Nel 1914 è con Michele Cascella del quale nel
«Il passaggio» e nel «Diario di una donna», afferma:«…Un fanciullo m’amava,
migrante arcangelo, in vertigine di luce spada bella; e lo vidi colpito
piegarsi, accettar la sorte, accettar di sparir…». «…Come era caro, allora,
trasognato come un Aligi, abruzzese delle montagne, mistico e panteista, pieno
di grazia e così felice in quei pochi mesi in cui mi illusi d’amarlo…» Poi ci
furono, nel 1915 Giovanni Boine e Fernando Agnolotti, dei quali in «Selva
d’amore» scrive:
«Il mio sangue,
ho sentito il mio sangue cantare,
un’ora
e il tuo gli rispondeva
ed un’allodola, che intanto
salutava l’aurora…»
Quel mattino del 3 agosto 1916, mentre si recava per incontrare il poeta sconosciuto, aveva da poco smesso di amare Raffaello Franchi, ecco perché il suo cuore cantava una nuova canzone d’amore, anche se, dopo due anni pentita ripensava con nostalgia all’amore di Franchi, che: «…aveva sopportato con infinita abnegazione d’essere sacrificato all’amore per Campana… …Raffaello m’ha amato come forse nessun altro, forse come neppure Cena…» in «Diario di una donna» e ancora confessa: «…Forse Dino fu l’uomo che più amai… Tutta la sera m’è ondeggiata alla memoria, l’immagine di lui, della sua pazzia, e di quel altipiano deserto, in quelle prime poche notti estive del nostro amore che son rimaste le più pervase d’infinito ch’io abbia vissuto… «…E amai perdutamente Campana per non lasciarlo solo nella sua follia…» in «Le mie lettere sono fatte per essere bruciate». Dopo Campana ci sono stati altri amori e tutti, dopo qualche tempo finivano per morire uccisi dal carattere irruente e dalla morbosa gelosia che la dilaniava: 1918 Giovanni Merlo, 1920 Tullio Bozza, 1924 Tito Zaniboni,
«Su la mia bocca
da la bocca d’uno
mai prima veduto,
un bacio
un bacio violento
oggi è caduto rapinoso… »
«Oscilla,
nel vento,
nel vuoto spazio,
giunco e non uomo,
ed io m’illusi,
or dannato lo vedo… »
L’auto sta per giungere a Barco, Sibilla rimette nella borsa il libro di Campana, che aveva portato con sé per avere una dedica dal poeta e che la letto durante il viaggio. Guarda il paesaggio con lo sguardo ancora più trasognato; sembrava che il motore della macchina arrancando ripetesse all’infinito, unitamente al battito del cuore: «erano tutti stracciati /e coperti col sangue del fanciullo»: due versi di un poeta americano scelti e adattati per la presentazione, come un marchio di fabbrica dei Canti Orfici. Non sapeva spiegarsi perché quei versi gli gridavano dentro e da dove veniva la loro magica potenza poetica? Doveva conoscerlo, doveva sapere, specchiarsi in quegli occhi che definivano in cento maniere; sentiva irrefrenabile il desiderio di baciare quella bocca carnosa e forte. Come sempre succede in questi casi, c’è sempre un nemico celato, ben nascosto che smaterializza quando meno te l’aspetti, e il nemico nascosto era il delirio portato dalla malattia di Dino che accresce in modo parossistico idee che già erano nella mente del poeta e le fa diventare ossessive. E, come abbiamo letto dalle lettere, il 27 febbraio 1932, s’ammala improvvisamente d’una malattia misteriosa, forse sifilide, per cui era stato curato all’ospedale di Marradi nel 1915, e per questo era entrato in manicomio nel 1918. Muore il primo di marzo, alle ore undici e tre quarti.
* * *